Il museo delle penultime cose, di Massimiliano Boni
Recensione di Giorgia Greco
La copertina (66THA2ND editore.)
“Il museo della Shoah di Roma occupava la parte di villa Torlonia che si allunga verso piazza Bologna. Era stato inaugurato quasi dieci anni prima e ora, a ripensarci, sembrava incredibile che fosse stato così difficile realizzarlo….Per accedervi era stato aperto un viale a rampe contrapposte che scendeva gradualmente fino all’ingresso. Il viale era attraversato dalle immagini olografiche dei Giusti italiani, donne e uomini che erano riusciti a salvare gli ebrei dalla deportazione”
Con la progressiva scomparsa dei sopravvissuti accostarsi alla Shoah è un compito sempre più arduo e il rischio che il venir meno dei testimoni di quell’orrore possa condurre alla rimozione del ricordo diventa una possibilità concreta. Ambientata in un futuro prossimo la terza prova narrativa di Massimiliano Boni, ebreo romano e consigliere alla Corte costituzionale, è un romanzo originale e innovativo in cui l’autore racconta la Shoah guardandola a distanza e, senza entrare nei campi di sterminio, ci riporta con sensibilità psicologica e capacità immaginativa ad un’epoca che ha segnato la Storia e la coscienza dell’Europa. Sin dalle prime pagine incontriamo Pacifico Lattes, storico eccellente e ricercatore meticoloso presso il Museo della Shoah di Roma, di cui ha completato la Sala della Memoria nell’arco di dieci anni e in qualità di vicedirettore affianca Mario Canepa nella gestione del museo. Non essendo mai stato in un lager per l’incapacità di affrontare l’orrore che avvenne in quei luoghi, Pacifico si è dedicato alla raccolta e catalogazione di documenti e notizie ricostruendo la vita quotidiana dei deportati e delle loro famiglie per restituire alle vittime un’identità e una storia, oltre che la dignità di persone fino all’attimo prima della cattura. “Era un lavoro che richiedeva pazienza, buona memoria e intuito.
Col tempo tutte le informazioni erano state raccolte e ordinate nell’archivio del museo per essere custodite per sempre. Quando la sala della Memoria fu completa, Pacifico per la prima volta sentì di essere felice. Aveva raggiunto il traguardo inseguito per anni…” Anche la mostra sugli ultimi sopravvissuti alla Shoah che aveva avuto l’incarico di curare è stata un successo per il giovane studioso e la storia di Gloria Watson la cui immagine campeggia nei manifesti e i diari di Ada Perugia, l’ultima sopravvissuta italiana di cui il museo ha pubblicato le memorie, sono motivo di grande orgoglio per Pacifico e la sua famiglia. Finalmente con Ester, sua moglie, può pensare ad organizzare le vacanze estive. “Che paese stava diventando l’Italia? Un paese che aveva paura del domani, in cui la felicità era solo uno slogan….in cui la scuola non serviva più a educare; in cui troppi giovani crescevano senza radici, esposti al vento della dimenticanza, e dove negli ultimi tempi le minacce e gli episodi di violenza verso gli ebrei e le altre minoranze, invece che scomparire, andavano crescendo”.
In questa Italia cupa, pervasa da rigurgiti antisemiti, dalla violenza e dal razzismo, schiacciata dalla crisi che vede Renzi al tramonto e un tal Cacciani, populista, al comando con il suo Piano nazionale della felicità, i programmi di Pacifico Lattes vengono stravolti da una notizia inaspettata. Mario Canepa, direttore del museo, non ebreo, figlio di partigiani di origini liguri dal temperamento tenace ed estroverso, viene convocato insieme a Pacifico nell’ufficio del rabbino capo dove si trovano due preti, Felipe Castillo, segretario del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, e don Riccardo, parroco in una periferia difficile come Tor Sapienza. Il motivo dell’incontro è a dir poco sconvolgente: fra gli ospiti della casa di ricovero per anziani che don Riccardo gestisce con l’aiuto di alcune suore c’è Attilio Amati, quasi centenario, un uomo scorbutico, taciturno, dal carattere aspro che confidandosi con una delle suore che lo curano ha espresso il desiderio di avere un funerale ebraico. Da altre confidenze sfuggite all’anziano don Riccardo sospetta sia reduce dai lager. Un colpo di scena inaspettato che destabilizza tutti i presenti, in particolar modo Pacifico Lattes che non esita a palesare scetticismo e perplessità circa la presenza di un reduce dai campi di sterminio ancora in vita. Per il giovane ricercatore che si è sempre occupato dei deportati prima della Shoah la possibilità che esista un nuovo superstite su cui indagare lo riporta a quell’orrore da cui si è sempre tenuto a distanza. Da questo punto il romanzo si dipana in un crescendo di suspense con una narrazione che acquista forza pagina dopo pagina nei tentativi complessi e delicati al contempo di svelare il mistero che Attilio nasconde così gelosamente. La ricerca sul passato dell’anziano che coinvolge anche due famosi studiosi dello Yad Vashem, François Bloch e Rachel Leibowitz, si rivela subito complessa: non c’è traccia di Attilio negli archivi, negli elenchi della Comunità ebraica o in altri documenti consultati e la sua diffidenza rende ancor più ostico qualsiasi tentativo di approccio con lui. Da parte sua Pacifico è riluttante a credere che Attilio sia ebreo e i suoi primi incontri con l’anziano si rivelano un fallimento perché entrambi lottano per difendere la propria anima e il proprio dolore. E’ un lento processo di avvicinamento quello fra Attilio e Pacifico, di recupero della fiducia nell’altro e per il giovane ricercatore di crescita interiore che li porterà a ripercorrere il passato con la consapevolezza che i fantasmi si possono affrontare e superare. Perché se il nazismo è stata una guerra contro la memoria ricostruire la vita di ogni sopravvissuto è una “forma di vendetta”.
Fra i molti pregi di questo libro ci sono le descrizioni minuziose dei rituali della tradizione ebraica, Purim, Pesach, Kippur, che l’autore inserisce con sapiente arte narrativa nel racconto della quotidianità di una famiglia ebraica che si riunisce durante le feste per condividere assieme alle persone care piacevoli momenti di socialità. Vincitore del Premio Città di Lugano l’ultima opera di Massimiliano Boni è un romanzo ben costruito, dalla prosa elegante e con un intreccio avvincente che cattura il lettore fino all’ultima pagina dove un finale drammatico, magistralmente orchestrato dall’autore, solleverà nuove riflessioni sulla necessità di arginare con ogni mezzo l’intolleranza e l’odio razziale che pervadono l’Italia. Il museo delle penultime cose, storia intima e collettiva, convince anche perché propone una narrazione originale e innovativa per non lasciare cadere nell’oblio la tragedia della Shoah e per ricordare a tutti noi che “ogni racconto lascia sempre una traccia e come dice il Premio Nobel Elie Wiesel, sopravvissuto all’Olocausto: Chi ascolta un testimone, diventa lui stesso testimone”.
Giorgia Greco