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Oltre la cortina di ferro: attivismo ed emigrazione ebraica dai Soviet Recensione di Giuliana Iurlano
«La mia generazione è cresciuta nella convinzione che lasciare l’Unione Sovietica fosse altrettanto difficile quanto il lanciare una pietra così in alto da non vederla più ricadere». Così Boris Khazanov sintetizzava, in un suo articolo uscito clandestinamente su «New Russia» nel 1976, la condizione dell’intellettuale ebreo-russo, fortemente legato alla cultura e alla lingua del suo paese, ma ormai disaffezionato alla politica. Il volume di Yuli Kosharovsky, “We Are Jews Again”: Jewish Activism in the Soviet Union (traduzione di Stefani Hoffman, a cura di Ann Komaromi, con una introduzione di Joshua Rubenstein, Syracuse, NY, Syracuse University Press, 2017, pp. 421) riprende uno dei temi più “caldi” dell’ebraismo, quello dell’adesione degli ebrei russi alla rivoluzione, della loro successiva persecuzione da parte del regime staliniano e, poi, dell’impossibilità di poter lasciare il paese per raggiungere Israele o gli Stati Uniti. La loro difficoltà di emigrare, in effetti, era andata progressivamente crescendo negli anni ’50, quando le richieste migratorie erano state strettamente collegate sia con la politica estera – a causa della guerra di Corea, prima, e delle complesse vicende mediorientali, culminate con la guerra dei sei giorni, poi –, sia con la politica interna, in particolare rispetto al problema delle nazionalità presenti nel paese; a tutto ciò si era aggiunto il tradizionale antisemitismo russo, inizialmente smorzato dalla condivisione, da parte di numerosi ebrei (molti dei quali ai vertici del PCUS), dell’ideologia comunista rivoluzionaria, ma poi prepotentemente riemerso negli anni di Stalin, fino a trasformarsi – per ciò che riguardava i refuseniks, vale a dire gli ebrei sovietici a cui veniva negato il visto per lasciare il paese – in una sorta di arma di ricatto nei confronti dell’Occidente.
Lo stato dell’arte degli studi sull’emigrazione ebraica dall’Unione Sovietica nei trent’anni successivi all’era staliniana – dopo una fase in cui la ricostruzione storica, nei paesi occidentali, è avvenuta soprattutto grazie alle testimonianze degli emigrati e alle poche notizie filtrate attraverso la fitta “cortina di ferro” – si è arricchito, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, di una serie di fonti “interne”, che hanno parzialmente colmato le lacune storiografiche dovute all’utilizzo, come uniche fonti primarie, della stampa ufficiale sovietica e dei documenti pubblicati dai refuseniks, quasi sempre nella forma dei samizdat. Tali nuovi documenti, raccolti nel 1999 da Boris Morozov per il Cummings Center for Russian and East European Studies di Tel Aviv, nell’ambito del progetto “Agmon” per lo studio dell’ebraismo sovietico (B. Morozov, Documents on Soviet Jewish Emigration, London-Portland, OR, Frank Cass, 1999), fanno luce su alcuni aspetti della politica sovietica nei confronti dell’emigrazione ebraica. Tuttavia, l’apertura degli archivi successiva al 1991 – iniziata già ai tempi della perestroika e della glasnost – ha avuto dapprima un sensibile rallentamento, soprattutto a partire dal biennio 1995-1996, per poi cessare, in alcuni casi, quasi del tutto, a seguito delle norme introdotte nel 1993 che limitavano le condizioni di declassificazione dei documenti e che vietavano agli archivi di prendere decisioni autonome. Il lavoro dell’ex refusenik Kosharovsky (pubblicato già in 4 volumi in russo tra il 2008 e il 2012) costituisce, dunque, un importante passo in avanti nella ricostruzione dell’attivismo degli ebrei russi, che non desideravano altro che la libertà di imparare l’ebraico, di istruire i propri figli secondo la propria tradizione e, soprattutto, di poter emigrare in Israele. Ma la novità del lavoro è data proprio dalle interviste che costituiscono la trama stessa del volume, così che gli ebrei, a cui era stato impedito di esprimersi liberamente, possono finalmente raccontarsi, descrivere il senso di alienazione che li accompagnava nel momento in cui si rendevano conto di essere veri e propri “prigionieri” in una terra che, fino a quel momento, era stata la loro patria e che, improvvisamente, si era rivelata come l’atavica persecutrice che, ai pogrom zaristi, aveva sostituito il sistema concentrazionario dei gulag. Il percorso di consapevolezza della propria identità ebraica, insomma, si chiarisce proprio attraverso la coscienza che l’antisemitismo non è una variabile casuale, ma un dato strutturalmente intrinseco anche all’interno di quella che doveva essere un’ideologia liberatrice e innovatrice. L’identità ebraica, così, si trasforma gradualmente in una presa di coscienza della necessità e della fondamentale importanza del sionismo anche da parte di ebrei comuni, che – come racconta, per esempio, David Khavkin – si resero conto che il sionismo sarebbe stato l’unica vera forma di liberazione. Fu proprio il movimento sionista ad elaborare un efficace sistema di monitoraggio della situazione in Unione Sovietica e di trasmissione delle informazioni in Occidente attraverso il Liaison Bureau, aiutato in questo dal Centre for Research and Documentation of East European Jewry della Hebrew University di Gerusalemme e dal neo formato Helsinki Group di Mosca, del quale facevano parte anche Anatoly (Natan) Sharansky, Vitaly Rubin, Yuri Orlov, Andrei Sakharov e sua moglie, Elena Bonner, Lyudmilla Alexeyeva, Alexander Ginzburg; Malva Landa, Vladimir Slepak e molti altri. La détente, tanto apprezzata dalla prospettiva occidentale, era invece vissuta dai refuseniks e dai dissidenti come un cedimento al totalitarismo sovietico, come una sorta di “miopia” dell’Occidente di fronte a quella che era la profonda impenetrabilità del sistema comunista. Così, come raccontano molti ebrei sovietici, tra cui Ida Nudel, uno dei compiti principali degli attivisti era quello di far luce sulla reale situazione interna, riuscendo a far conoscere al mondo la prigionia e l’esilio in Siberia di quelli che venivano definiti i “prigionieri di Sion”, il cui tragico destino sembrava ormai segnato. La voce degli ebrei sovietici, dunque, è un altro importante tassello che va ad aggiungersi a quel terribile mosaico che è costituito dall’antisemitismo globale.
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