La scelta delle parole nell'articolo di Mattia Ferraresi è tutta finalizzata a dipingere il Presidente degli Usa come un inetto, incapace a svolgere le funzioni del proprio ufficio. Questo non fa che evidenziare i pregiudizi di Ferraresti contro Trump.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Francesco Semprini: " 'Tillerson sull’orlo delle dimissioni': Nuove ombre sui fedelissimi di Trump"
Francesco Semprini
Rex Tillerson sull’orlo delle dimissioni per contrasti profondi con Donald Trump, il quale viene contraddetto anche da Jim Mattis sull’accordo nucleare con l’Iran. È sempre più «Game of thrones» nell’amministrazione americana dove, a sentire le cannoniere mediatiche a stelle e strisce, le discrepanze tra il presidente e i suoi ministri più importanti starebbero travolgendo il Paese. Gli interessati negano, Trump pretende smentite ufficiali e minaccia querele.
Nessuna pace, quindi, per il 45° presidente americano che, oltre a dover fronteggiare gli avversari politici, deve fare i conti quotidianamente con «fake news» e provocatori. Tali sono stati definiti i reporter di Nbc secondo cui, l’estate appena passata, il segretario di Stato era pronto a dimettersi a causa di dissidi profondi, se non fosse intervenuto tempestivamente Mike Pence. Tillerson sarebbe arrivato a descrivere Trump come un «deficiente» davanti a un gruppo di membri del gabinetto dopo una riunione al Pentagono, il 20 luglio, riferisce ancora Nbc. Risolutivo l’intervento del vicepresidente che gli ha chiesto di desistere e rimanere alla guida di Foggy Bottom almeno sino alla fine dell’anno. Così come quelli del capo di gabinetto John Kelly e del segretario alla Difesa Mattis, che «lo hanno pregato di restare» in nome della «stabilità di governo».
Rivelazioni che hanno trovato terreno fertile nelle recenti dichiarazioni di Trump sulla Corea del Nord: «Uno spreco di tempo», ha detto proprio a Tillerson che parlava di canali di contatto aperti con Pyongyang. Solo una bufala, una «fake news», secondo i diretti interessati: «Il mio impegno con il presidente è forte come il primo giorno - replica Tillerson -. Questo non capisco di Washington, non sarò parte dei tentativi di dividere questa amministrazione». E Pence assicura di «non aver mai discusso» col segretario di Stato di dimissioni. La vicenda scatena le ire di Trump: «La storia di Nbc è stata totalmente respinta da Tillerson e Pence. È una fake news, dovrebbero scusarsi con l’America», tuona su Twitter. Poi, da Las Vegas, conferma «totale fiducia a Tillerson». Ancor prima delle smentite il presidente aveva già attaccato Nbc, sempre su Twitter, scrivendo: «Nbc è fake news e più disonesta anche di Cnn. Sono la vergogna del buon giornalismo».
Di contrasti in seno all’amministrazione si era parlato qualche ora prima quando Mattis aveva deposto al Congresso spiegando che «l’accordo sul nucleare con l’Iran è nell’interesse nazionale e il presidente dovrebbe considerare di mantenerlo». Nel complesso, secondo il capo del Pentagono, «l’intelligence crede che l’Iran ha rispettato l’accordo e pure l’Aiea dice questo». Affermazioni di tenore ben diverso da quelle pronunciate dall’inquilino della Casa Bianca che, in sintonia con Israele e altri partner regionali, sostiene che Teheran violi un accordo già in partenza dannoso per gli Usa. A intervenire è di nuovo Tillerson, che vuole prevenire insinuazioni di dissidi tra Casa Bianca e dicasteri: «Daremo un paio di opzioni al presidente su come procedere in merito all’accordo». Un assist a Mattis, il quale ricambia sul dossier nordcoreano: «La direttiva che il presidente Trump ha dato sia a Tillerson che a me è chiara: perseguire lo sforzo diplomatico, incluse iniziative con la Cina».
IL FOGLIO - Mattia Ferraresi: "Il piano di Trump per colpire l’accordo nucleare con l’Iran senza affondarlo"
Mattia Ferraresi
New York. Alla Casa Bianca stanno lavorando con solerzia per gettare a mare l’accordo nucleare con l’Iran evitando però che affondi, ennesimo espediente gattopardesco dell’Amministrazione per conciliare una posizione politica di rottura con le esigenze della realtà. Donald Trump ha sempre urlato a gran voce la sua posizione rapace: quello siglato da Obama è un accordo “catastrofico”, “il peggiore di sempre”, ma il presidente ha rinnovato il testo già due volte, in aprile e poi a luglio. L’accordo prevede che la Casa Bianca certifichi ogni novanta giorni che il regime di Teheran sta rispettando i termini, e soprattutto il governo deve confermare che il patto continua a essere “vitale per gli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.
L’ultima volta che Trump ha certificato il deal è stato al termine di una accesa discussione nello Studio ovale fra i falchi che lo incoraggiavano alla rottura plateale del patto e le colombe che suggerivano di prendere tempo. Trump alla fine ha accettato la linea morbida, ma in un’intervista al Wall Street Journal ha detto che “se dipendesse da me avrei già lasciato l’accordo 180 giorni fa” e ha chiesto al consigliere per la Sicurezza nazionale, H.R. McMaster, di studiare un’opzione alternativa in vista della scadenza successiva, il 15 ottobre. E’ un classico trumpiano: quando il presidente si sente costretto in un dilemma, ordina ai suoi di trovare una terza via, anche se non c’è lo spazio politico per tracciarla. Il piano architettato da McMaster per soddisfare le esigenze di Trump consiste nel “decertificare” l’accordo con l’Iran e allo stesso tempo fare pressione sul Congresso perché non reintroduca le sanzioni che il deal nucleare aveva congelato. In questo modo la Casa Bianca avrebbe la vittoria d’immagine che desidera – la sconfessione formale dell’odiato accordo concepito da Obama – e allo stesso tempo poco o nulla cambierebbe nei fatti: la reintroduzione delle sanzioni, non il sigillo sulla carta, è la linea rossa che cambierebbe radicalmente i rapporti con l’Iran.
Un esperto di politica iraniana che lavora con l’Amministrazione intervistato da Politico ha sintetizzato: “Una delle opzioni è quella di ‘decertificare’, continuare a evitare le sanzioni, introdurne di nuove ma non legate al settore nucleare, proporre una nuova strategia e convincere il Congresso che non è questo il momento di ritornare alle sanzioni nucleari”. C’è una guerra all’interno dell’Amministrazione sulla linea da tenere, e sempre più spesso le persone coinvolte nella decisione sono stranamente aperte nell’esibire il loro disaccordo con la posizione proclamata dal presidente. Il segretario della Difesa, James Mattis, ha detto a una commissione del Congresso che l’America “dovrebbe considerare di rimanere” nell’accordo in nome della sicurezza nazionale, e il capo delle Forze armate, Joe Dunford, ha confermato che il deal è stato “efficace nel ritardare lo sviluppo di capacità nucleari da parte dell’Iran”. Sono per il rinnovo anche il segretario del Tesoro, Steve Mnuchin, e il segretario di Stato, quel Rex Tillerson che ieri si è avventurato in una conferenza stampa inusuale – e invero surreale – per smentire la valanga di notizie che da mesi documentano i suoi litigi con Trump. Il disaccordo sull’Iran è soltanto uno fra i tanti. I falchi sono invece capitanati dal direttore della Cia, Mike Pompeo, affiancato dall’ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley, che più di ogni altro ha lavorato per diventare il volto della postura aggressiva dell’America in politica estera. Mossi da ragioni fra loro diverse, diversi componenti delle due squadre si stanno convincendo in questi giorni che il piano alternativo di McMaster è l’unica soluzione per placare gli appetiti politici del presidente e allo stesso tempo mantenere lo status quo.
Rimane aperto il fronte del Congresso. Se Trump deciderà di “decertificare” l’accordo, la Casa Bianca dovrà avere in mano garanzie che Capitol Hill non conduca una campagna per la reintroduzione delle sanzioni. L’accordo nucleare è passato attraverso il lavoro forsennato della Casa Bianca di Obama, che ha dovuto superare le resistenze anche dei falchi democratici. Lo stesso Chuck Schumer, capo dei senatori di sinistra, era contrario al deal. Esiste, dunque, la possibilità di mettere insieme una coalizione trasversale per riportare le lancette del rapporto con l’Iran a prima dell’accordo. Per placare i falchi, il piano di McMaster prevede una serie di iniziative aggressive avulse dall’ambito nucleare, ad esempio inserire le Guardie della rivoluzione nella lista delle organizzazioni terroristiche.