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La Stampa Rassegna Stampa
30.09.2017 L'Egitto salvato dalla islamizzazione dei Fratelli Musulmani: ammetterlo però non è facile
Gli intellò sono uguali ovunque. Francesca Paci ne intervista uno egiziano

Testata: La Stampa
Data: 30 settembre 2017
Pagina: 5
Autore: Francesca Paci
Titolo: «E' finita l'utopia di piazza Taharir, ma il Cairo prepara la riscossa dei giovani»

Riprendiamo dalla STAMPA-TUTTOLIBRI di oggi, 30/09/2017, a pag.5, con il titolo "E' finita l'utopia di piazza Taharir, ma il Cairo prepara la riscossa dei giovani" l'intervista di Francesca Paci allo scrittore Omar Robert Hamilton.

Gli intellò sono eguali dappertutto, subiscono il fascino di ogni estremismo, poi, se sono furbi, non ci rimettono la pelle e risalgono la china dopo essersi data una buona ripulita. E' il caso di Omar Robert Hamilton, un po' egiziano un po' americano, naturalmente tra i fondatori del Festival della Letteratura Palestinese (un impegno che gli lascia sicuramente molto tempo libero..), intervistato da Francesca Paci. Ammette i fallimenti di Morsi ma non attacca Al Sisi, naviga, questo sì. Infatti il suo libro trova subito un editore.

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Francesca Paci                         Omar Robert Hamilton

"Vorrei che avessimo preso Maspero", ripete ossessivo Khalil, il protagonista del primo ottimo romanzo dei 32enne regista anglo-egiziano Omar Robert Hamilton, La città vince sempre. Maspero, nel cuore del Cairo, è il palazzo della tivù di Stato che i ragazzi di Tahrir tentarono di «espugnare» nell'ottobre del 2011 per confermare quella rivoluzione di cui avevano di fatto già perso le redini. Finì con un massacro, il primo di una lunga serie che Khalil e la sua compagna Mariam ricostruiscono passo dopo passo nel libro, la via crucis della più iconica delle primavere arabe.
Lui, Khalil, giovane americano-palestinese, è al Cairo per studiare musica e recuperare la sua identità araba. Lei, Mariam, è un'attivista cresciuta dalla madre a pane e politica. S'incontrano scappando da una delle cariche della polizia che nei giorni della rivoluzione tentavano di proteggere l'allora Faraone dalla rabbia popolare. S'intendono, s'innamorano, partecipano alla nascita di un media indipendente nella sede del quale organizzano conferenze stampa anti-regime, dibattiti sulla democrazia, team di volontari per assistere i feriti e gli arrestati.
La Storia li spinge alla ribalta, poi il vento cambia: i Fratelli Musulmani vincono le elezioni, l'autunno rabbuia il Paese, l'esercito prepara la riscossa e il loro orizzonte si chiude. Hamilton, figlio della scrittrice Ahdaf Soueif e del poeta Ian Hamilton, racconta gli ultimi fatali sei anni egiziani in presa diretta, un film di amore e guerra di cui è stato testimone, avendo co-fondato nel 2011 il collettivo d'informazione Misireen per documentare la fine di Mubarak. «Sembra un'eternità...» ci dice al telefono dal Cairo. Risponde alle domande ma lascia decidere al lettore se la città che «vince sempre» sia quella conservatrice di ieri tornata in sella oggi o quella che cova la riscossa dei giovani.

Nell'epilogo i suoi protagonisti si chiedono se siano stati artefici del loro destino rivoluzionario almeno un po'. Lo siete stati?

«Penso di sì. La rivoluzione de 25 gennaio 2011 è stata reale, soprattutto nelle potenzialità. Certo, non abbiamo capito la ferocia del nemico, la scala della sfida di fronte a noi, l'importanza di muoversi velocemente. I segni c'erano, a partire dall'entrata in campo dell'esercito al posto della polizia Ma non è facile cogliere le dinamiche della Storia mentre la stai vivendo».

Il libro inizia con il sangue, i morti di Maspero, Mariam all'obitorio tra i corpi dei martiri. Resta qualcosa di vivo dei giorni di Tahrir?

«Volevo iniziare con una presa di responsabilità nei confronti dei morti, lo dobbiamo a chi si è battuto e non è più con noi. Sono passati sei anni. Ragionavamo in termini di giorni e ora ragioniamo in termini di anni, il tempo non è più così importante. Credo che quel capitolo sia chiuso, una rivoluzione del genere non si ripeterà più, ma la scintilla di allora non è spenta».

I suoi attivisti respirano la libertà e la traducono in energia anche sessuale. Ma le nuove coppie non reggono alla sconfitta e si dicono addio, invecchiati troppo presto come i loro sogni. Si sentono così oggi i giovani egiziani?

«Ci sentiamo più vecchi di sei anni fa, è vero. Il 2011 è stato per noi il '68 di Parigi o Berkeley, c'era ovunque energia a cui attingere. Poi è arrivata la scossa, ci siamo destati tra arresti e repressione, l'utopia era finita».

Perché i liberal hanno perso il passo e si sono ritrovati in mezzo tra i due moloch storici, l'esercitoe la Fratellanza Musulmana?

 «In realtà i liberal in senso economico si sono riposizionati subito con l'esercito. Gli altri, i social-liberali, si sono fatti sorprendere alle spalle. Pensavamo di essere più forti di quanto fossimo e di muoverci nel flusso di un processo più grande, una rivoluzione mondiale in cui si accendevano le piazze di Atene, Madrid, New York e ogni movimento "Occupy" citava Tahrir. Ci sentivamo tanti, i moloch di sempre sembravano risibili».

Per due anni il mondo ha palpitato per piazza Tahrir. Quando e perché l'opinione pubblica internazionale si è disamorata ?

«E' successo durante l'anno di governo dei Fratelli Musulmani, una forza democraticamente eletta che agiva in modo non democratico. Tra il 2012 e il 2013 la narrativa si è fatta più difficile da capire all'estero: avevamo votato ma chiedevamo nuove elezioni, rimpiangevamo l'esercito che avevamo combattuto, era tutto confuso. Poi ci si sono messe la Libia, la Siria di Assad: quando è arrivato il golpe di al Sisi i riflettori globali erano già spenti, si sono riaccesi per illuminare il grande spettacolo della fine della nostra primavera. Sisi è passato per il domatore del caos, una specie di Assad senza l'aiuto russo e sostenuto dal popolo».

Avete imparato la lezione?

 «Dovevamo curare la narrativa e prendere in mano i media».

II romanzo è anche una dichiarazione d'amore per il Cairo che, scrive, pulsa come il free jazz. Cosa ama di una città che non tutti apprezzano al primo impatto?

«Scrivo della città del 2011, un momento speciale, una Cairo che traboccava libertà e potenzialità. Per molti versi oggi è tornata alle vecchie e non sempre gratificanti abitudini. Ma una qualità resta, la resilienza nonostante la corruzione, i guasti, la criminalità, il Cairo vive».

 C'è in Egitto lo scontro generazionale descritto nel suo libro?

«La rivoluzione del 2011 è stata anche la risposta al divario generazionale dell'Egitto, i giovani erano e sono i più marginalizzati, disoccupati, perdenti. La loro vita è una finestra chiusa».

All'arresto di Morsi i liberal ripetevano di aver dovuto scegliere tra il fascismo militare e religioso. I Fratelli Musulmani volevano davvero islamizzare la società?

 «Il dilemma era reale. I Fratelli covavano il piano di islamizzare l'Egitto. La loro capacità di farlo però, è stata esagerata per aizzare il popolo. I Fratelli poi hanno commesso tanti errori, invece di prendersi decenni di tempo hanno pensato di imporre la loro visione in un anno».

Le molestie nei confronti delle donne egiziane sono aumentate per il loro attivismo politico o sono la cifra di un paese arcaico?

«Il caso emerso a livello internazionale è quello delle molestie di massa a piazza Tahrir, durante il governo Morsi. Allora, e anche dopo, le donne sono state puntate per ragioni politiche, ma il tutto è avvenuto nel quadro di un malcostume patriarcale ritenuto normale».

Cosa è stato il 30 giugno 2013: una rivoluzione popolare, un golpe, un astuto piano militare?

«Direi un golpe che ha usato la protesta popolare per imporre un piano militare ben congeniato. Sono stati molto abili».

Quanti giovani attivisti hanno lasciato l'Egitto in questi anni?

 «Molti. Sono andati a Dubai, in America. Si sono ripresi in mano la loro vita. Ma è una pausa, comprensibile. Torneranno».

L'Italia conoscerà la verità sulla sorte di Giulio Regeni?

 «Non lo so, forse no. Ma per Regeni vale quanto vale per migliaia di egiziani toccati dallo stesso destino: l'unica alternativa che abbiamo è vivere e lavorare per avere giustizia indipendentemente dall'esito».

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