Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 30/09/2017, a pag.10 con il titolo " Prima di Israele " l'analisi storica di Antonio Donno a 100 anni dalla Dichiarazione Balfour.
Antonio Donno
"Ma ora che sono giunto a conoscere l'ambiente viennese in cui egli crebbe, rimango stupito della grandezza di Herzl, della profondità della sua intuizione, che lo rendeva capace di comprendere tanta parte del nostro mondo" (Chaim Weizmann, "La mia vita per Israele")
Che la Dichiarazione di Lord Balfour, ministro degli Esteri del governo britannico di Lloyd George, rilasciata in forma di una lettera a Lord Rothschild, massimo esponente dell'ebraismo britannico, il 2 novembre 1917, nella fase finale della Grande guerra, sia un atto di consolidato valore diplomatico a favore del movimento sionista, diretto da Chaim Weizmann, è incontestabile. E lo è per il fatto che tutto ciò che è scaturito nei decenni successivi, fino alla nascita dello stato di Israele, il 14 maggio 1948, è un dato di fatto radicato nella storia. Che, oggi, il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, sostenga: "Gli inglesi non avevano alcun diritto di garantire agli ebrei ciò che essi hanno avuto, e gli ebrei non avevano alcun diritto di accettare", è un'affermazione antistorica, fondata sull'illusione di cambiare i fatti a un secolo di distanza da quegli avvenimenti.
Innanzitutto, al momento della Dichiarazione Balfour, non esisteva alcun organismo internazionale deputato a risolvere le questioni generali, come sarà successivamente con la Società delle Nazioni e con l'Organizzazione delle Nazioni Unite. La Gran Bretagna ricopriva un ruolo egemone nel sistema politico internazionale, incontestato e nel pieno della sua supremazia. Così, la Dichiarazione Balfour provenne da una nazione che occupava un posto centrale sulla disputa di gran parte delle questioni internazionali, soprattutto in quelle mediorientali, dove Londra godeva di una superiorità consolidata in decenni di controllo della regione. In secondo luogo, nella Conferenza di San Remo del 1920, la nata Società delle Nazioni, il primo organismo internazionale il cui fine era quello di risolvere le crisi dopo gli orrori della Grande Guerra, attribuì alla Gran Bretagna il mandato fiduciario sulla Palestina, con il compito di favorire l'immigrazione ebraica e l'insediamento di una national home ebraica. Anche ammettendo che il vizio della Dichiarazione Balfour consistesse nel fatto che la Gran Bretagna avesse effettuato un atto unilaterale, il successivo conferimento del mandato fiduciario fu una soluzione voluta da un organismo internazionale, non più da una sola nazione, per quanto la più grande potenza globale. Infine, nel 1922, la Società delle Nazioni inserì integralmente la Dichiarazione Balfour all'interno del documento che conferiva a Londra il mandato sulla Palestina. Furono atti che posero il sigillo internazionale a una decisione storica.
I fatti della storia sono indiscutibili, né si può pensare che quei fatti possano essere cancellati con un colpo di spugna per volontà di Mahmoud Abbas.
Né, tantomeno, ha valore l'affermazione palestinese che la Dichiarazione Balfour fosse contraria al principio dell'autodeterminazione dei popoli, cioè in questo caso dei palestinesi. E' un fatto ben strano che i capi palestinesi si appoggino ora al principio wilsoniano sull'autodeterminazione dei popoli, inserito nei principi fondamentali della Società delle Nazioni, e nello stesso tempo contestino l'atto della stessa Società delle Nazioni in cui è inserita la Dichiarazione Balfour.
In sostanza, una cosa è buona quando conviene, cattiva quando non conviene. Inoltre, v'è un altro aspetto di primaria importanza, sempre a proposito del principio dell'autodeterminazione. Dopo la pubblicizzazione della Dichiarazione, e, ancor più, dopo l'attribuzione del mandato fiduciario a Londra, mentre i sionisti esultavano per aver ottenuto un documento fondamentale per il raggiungimento del loro scopo e un mandato che li soddisfaceva pienamente, i capi arabi non si fecero avanti per richiedere l'applicazione dell'autodeterminazione per i palestinesi; e questo, per il semplice fatto che nella mentalità araba non esisteva un popolo palestinese.
Ciò che essi richiedevano era che il mandato riguardasse il giovane regno di Siria, con a capo Feisal, che si era autoproclamato re di quello stato. Quindi, la Palestina avrebbe dovuto essere parte di una "Grande Siria", dalla quale, però, nel 1920, Feisal sarebbe stato estromesso dai francesi. In sostanza, l'atto della Società delle Nazioni metteva l'accento sulla situazione eccezionale del popolo ebraico, ma soprattutto enfatizzava il significato dello speciale diritto degli ebrei di fare ritorno in Eretz Israel, la Terra di Israele, dove la civiltà ebraica era nata ed era fiorita, molti secoli prima dell'islamizzazione della regione.
Quali furono i motivi che spinsero il governo inglese a promulgare la Dichiarazione di Balfour? Non certo soltanto i particolari meriti di Chaim Weizmann, grande chimico che, con la sua scoperta, (la cordite) aiutò non poco i britannici sul campo di battaglia, relativamente al potenziamento degli esplosivi. Le vere motivazioni erano di carattere politico e strategico: Londra mirava a consolidare la propria egemonia sul medio oriente e sul Mediterraneo orientale, dando la possibilità ai sionisti di fondare uno stato ebraico sotto la propria tutela. Più precisamente, l'eccezionale opera diplomatica di Weizmann si rivolse non solo al governo britannico, ma anche allo stesso movimento sionista - principalmente britannico - affinché si convincesse di come le sorti dell'ebraismo fossero intimamente legate a quelle dell'Intesa nella guerra contro gli Imperi centrali. Fu un'opera estremamente difficile, perché molti esponenti di spicco dell'ebraismo di quel paese erano contrari alla politica sionista, ritenendo che potesse incrinare i rapporti consolidati tra l'ebraismo (soprattutto le consorterie ebraiche più ricche e più legate al potere, capeggiate da Edwin Montagu, acceso antisionista) e il governo inglese.
Al contrario, si venne a creare uno stretto legame tra gli interessi sionisti e quelli del War Cabinet inglese: i sionisti volevano l'estromissione degli Ottomani dalla Palestina ed esattamente la stessa cosa volevano i britannici (e i francesi), per porre un altro punto fermo alla propria egemonia sul medio oriente.
Ancora: i sionisti desideravano che un eventuale protettorato sulla Palestina fosse affidato a Londra, soprattutto dopo la Dichiarazione di Balfour, e gli inglesi erano perfettamente d'accordo, ovviamente. Se si esaminano più in profondità i passi della politica diplomatica di Weizmann, gli aspetti della vicenda appaiono ancor più chiari. Weizmann e i suoi collaboratori, forti ormai di una buona considerazione anche nel continente europeo, frutto di una capacità diplomatica di grande livello, circolarono in Europa, e soprattutto in Gran Bretagna, Francia e Italia, sostenendo che l'appoggio al sionismo avrebbe grandemente favorito la vittoria dell'Intesa e prodotto grandi benefici al tavolo delle trattative.
Si trattava evidentemente di esagerazioni messe in campo al fine di creare un sostegno generale all'atto britannico con il quale Londra si impegnava a favorire una vasta immigrazione ebraica in Palestina e, come conseguenza, la creazione di una national home per gli ebrei che si erano stanziati o che si sarebbero stanziati nella regione.
Tuttavia, al di là di queste dichiarazioni che avevano scarsa base nei fatti, tutto contribuì a creare un clima di favore nei confronti del movimento sionista. Un ruolo particolare svolsero gli Stati Uniti di Woodrow Wilson nella vicenda. Wilson dette la sua approvazione alla Dichiarazione di Balfour solo alla fine dell'agosto del 1918, con una lettera inviata al rabbino Stephen Wise, esponente di spicco del sionismo americano, in occasione di Rosh haShana, il capodanno ebraico. Perché tanto ritardo? Il primo dato fondamentale consiste nella situazione tutta particolare degli ebrei presenti negli Stati Uniti, la cui condizione non era paragonabile a quella dei milioni di ebrei dell'Europa orientale e della Russia zarista: essi godevano dei diritti politici e civili degli americani e l'antisemitismo era un fattore del tutto marginale nella società americana.
Quando Louis Brandeis, giudice della Corte suprema americano e amico di Wilson, dette vita a un movimento sionista negli Stati Uniti, esso si pose in stretta connessione con i valori liberali americani, in quel tempo esaltati dal clima di progressismo. L" americanizzazione del sionismo" fu il fattore che contraddistinse il movimento di Brandeis: il sionismo era perfettamente compatibile con l'americanismo.
Molti ebrei, tuttavia, temevano che l'adesione al sionismo producesse l'accusa di "doppia lealtà" da parte degli americani, con le gravi conseguenze di ordine politico ed economico che potevano derivare da un'eventuale separatezza rispetto al contesto liberale americano che aveva accolto milioni di ebrei tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento. Fu allora che Brandeis elaborò e diffuse una nuova, originale visione del liberalismo americano.
Il suo "nuovo liberalismo" tracciava una netta distinzione tra il concetto di "nazione" e quello di "nazionalità". Estendendo a quest'ultima le garanzie e i diritti di libertà, il liberalismo stesso si rendeva disponibile a un maggiore arricchimento sul piano culturale e a un rafforzamento delle strutture democratiche della nazione. Veniva a cadere, di conseguenza, la contraddizione insita nel concetto di "doppia lealtà", nel momento in cui si poteva essere leali sia agli Stati Uniti in quanto "nazione", sia al "nazionalismo" ebraico, cioè al sionismo. Il sionismo, dunque, era perfettamente compatibile con l'americanismo.
Un arricchimento del liberalismo che convinse molti ebrei riluttanti e che permise la nascita dell'American Federation of Zionists, finendo per convincere Wilson.
Ma la vera svolta nella decisione del presidente americano di accettare la Dichiarazione di Balfour scaturì dagli esiti della guerra. Quando Wilson lanciò l'idea di un "nuovo ordine mondiale", aveva in mente un mondo fondato sulla cooperazione politica e sulla liberalizzazione dell'economia. Ciò escludeva, di fatto, l'egoismo delle grandi potenze.
Al contrario, quando l'Impero ottomano entrò in guerra al fianco degli Imperi centrali, fu del tutto evidente che il crollo ottomano avrebbe innescato un processo spartitorio tra Gran Bretagna, Francia e Russia, esattamente l'opposto della "dottrina Wilson". Wilson tentò vanamente di persuadere la Turchia a uscire dall'alleanza con gli Imperi centrali, firmando una pace separata, la qual cosa avrebbe garantito la sussistenza dell'Impero e impedito la spartizione delle sue spoglie.
Dal canto suo, Weizmann, avendo compreso quali sarebbero stati gli esiti della guerra sulla sopravvivenza dell'Impero ottomano, operò intelligenti pressioni sul War Cabinet britannico perché si giungesse finalmente a una dichiarazione a sostegno di una national home ebraica in Palestina nella forma di un protettorato britannico.
In sostanza, Weizmann e i leader sionisti non erano contrari alla filosofia wilsoniana sul "nuovo ordine mondiale", ma il loro obiettivo era ben preciso: auspicavano con forza che la Turchia crollasse e che il suo impero si sgretolasse, che le grandi potenze si insediassero nella regione e, in modo particolare, che la Gran Bretagna controllasse la Palestina a tutto favore dell'obiettivo sionista.
Un realismo di straordinaria efficacia.
Solo quando l'Impero ottomano crollò e si disgregò, come era prevedibile, Wilson prese atto della realtà. Pochi mesi dopo la fine della guerra, il presidente americano accettò la Dichiarazione di Balfour: il movimento sionista aveva concluso la sua prima battaglia con un successo clamoroso, preludio indispensabile per la nascita dello Stato di Israele il 14 maggio 1948.
Chaim Weizmann era stato l'artefice di questo successo.
Lloyd George, parlando a un membro del suo Gabinetto, disse: "Quando noi due saremo dimenticati, a quest'uomo verrà eretto un monumento in Palestina".
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