Giordano Stabile
Il colonnello Mohammed Sabah indica attraverso la feritoia dietro la trincea eretta con sacchetti di sabbia: «Da qui puoi vedere bene la casa sopra la collinetta, di fronte: lì, c’è l’Isis». Poi si gira e mostra due grossi fori nel container usato come dormitorio dai soldati di guardia all’avamposto. «Cecchini. Hanno fucili da mezzo pollice di calibro che possono colpire fin qua, anche se sono a più di un chilometro di distanza». Il colonnello porta due baffoni che da queste parti non indicano nostalgia per Saddam Hussein ma l’appartenenza a un gruppo etnico particolare, con «un coraggio fuori dalla norma». Sono i kakai, gente di lingua curda ma con un culto religioso tutto loro, anche se si considerano musulmani, e tradizioni che nessun invasore è mai riuscito a cambiare. Compresi i baffi obbligatori per gli uomini.
La regione abitata dai kurdi
L’avamposto è l’ultimo lungo una linea di difesa che separa i villaggi kakai, come il vicino Zanqar, da quelli arabi, a cominciare da Dallish, intravisto dalla feritoia. I peshmerga curdi hanno creato un brigata, la IX, con molti ufficiali del luogo, per proteggere il fronte. Ma anche con uno scopo non ufficiale. Siamo a una cinquantina di chilometri a Sud-Est di Kirkuk, il punto massimo di espansione delle forze curde. Verso Sud c’è ancora l’Isis, ma presto sarà spazzato via dalle forze irachene, verso Est c’è Tuz Khurmatu e le milizie sciite. La campagna sembra a volte lunare, calanchi marroni, bruciati dal sole, intramezzati campi irrigati di granturco e canneti verdissimi. In mezzo corre una strada sterrata, affiancata da un terrapieno e fortini in fila, sopra collinette alte venti, trenta metri. Questa linea sarà la frontiera meridionale del Kurdistan indipendente, separato dall’Iraq «arabo».
In ogni fortino è di guardia un plotone. Il morale è alto, stanno arrivando i risultati ufficiali del referendum: il sì ha vinto con il 92,7 per cento. Persino in questa area di confine hanno votato quasi tutti per staccarsi dall’Iraq. Il governatore di Kirkuk, Nejm Eddin Karim, ha invitato la popolazione a festeggiare, «evitando gli spari in aria», per non provocare le milizie sciite. Ma è Baghdad, con gli alleati, che spinge verso la prova di forza. La Turchia, l’Egitto e il Libano, dopo l’Iran, bloccano i voli da e per Erbil. Il Parlamento iracheno chiede all’esercito di dispiegarsi a Kirkuk, che in realtà non ha mai fatto parte della Regione autonoma del Kurdistan. La battaglia, si spera solo diplomatica, sarà qui, lungo la linea fortificata che separa curdi, ed etnie affini, dagli arabi.
A fare da cuscinetto fra peshmerga ed esercito iracheno è paradossalmente l’Isis. Gli islamisti controllano ancora il distretto di Hawija. L’esercito iracheno ha cominciato a «ripulire» i villaggi attorno al capoluogo e le forze curde sigillano la loro parte di fronte, per impedire ai jihadisti di fuggire. «Dobbiamo fronteggiare infiltrazioni quasi ogni giorno - conferma il comandante della IX Brigata, generale Araz Abdul Kadir -. Ma questo è niente rispetto a tre anni fa, quando Daesh, l’Isis, dilagava e io avevo molti meno uomini e molto meno preparati». Il generale ringrazia l’Italia, per l’addestramento fornito, e «anche per altro», dice sibillino. Quasi tutti i giorni, anzi di notte, arrivano i «consiglieri» italiani, forze speciali, per aiutare i peshmerga a intercettare gli «infiltrati».
L’Isis manda piccoli gruppi di kamikaze, a piedi o con le moto, che sfruttano il dedalo di canali, canneti attorno ai villaggi. L’ultimo attacco ha colpito proprio l’avamposto vicino a Zanqar, quattro peshmerga uccisi. Ma non sembra questa la massima preoccupazione del generale. Il distretto di Hawija sarà riconquistato dall’esercito iracheno «senza grosse difficoltà». I peshmerga resteranno nelle loro posizioni e il «coordinamento con Baghdad è ancora buono». C’è un’altra forza che però ha piantato le sue bandiere lungo la strada che da Daqoq, dove c’è il comando della IX Brigata, porta a Tuz Khurmatu. Sono bandiere gialle e verdi, con i volti degli Imam Ali e Hussein, bandiere nere con la scritta «Ya Hussein», il grido di guerra degli sciiti. Tuz Khurmatu è per metà presidiata della potente milizia Qataib Imam Ali. Per ora le bandiere con il Sole dei peshmerga si mescolano ancora a quelle verdi ma presto potrebbe essere battaglia.
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