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Il Foglio Rassegna Stampa
27.09.2017 Il ritorno dell'Isis in Libia
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 27 settembre 2017
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Il ritorno dell'Isis in Libia»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/09/2017, a pag. I, con il titolo "Il ritorno dell'Isis in Libia", l'analisi di Daniele Raineri.

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Daniele Raineri

Il mujahid libico guarda in camera e la voce gli si rompe dalla commozione mentre si rivolge a Abu Bakr al Baghdadi, il capo dello Stato islamico che si nasconde da qualche parte nella valle dell’Eufrate e che secondo l’attendibilissimo ministero della Difesa russo era morto a maggio: “Continua su questa strada, non abbandonarla, vai avanti con pazienza e con fermezza”. La telecamera gioca con il fuoco dell’obiettivo, è manovrata da uno bravo, inquadra un po’ il combattente che implora Baghdadi e un po’ le nervature di metallo del caricatore a tamburo di un fucile d’assalto in primo piano. Per un processo di selezione naturale, i combattenti dello Stato islamico che riemergono ora in Libia dieci mesi dopo la disfatta di Sirte dell’anno scorso sono gli irriducibili, i superfanatici, i più resistenti, quelli che piuttosto vivono come nomadi nel deserto braccati dai voli di osservazione degli aerei da ricognizione francesi e americani ma non abbandonano la guerra e i progetti di attacchi contro l’Europa. Sono spariti per tutto questo tempo, nascosti sotto un mantello di silenzio tattico che serviva a sviare le ricerche, ora sono tornati in pubblico perché si sentono di nuovo abbastanza forti da rischiare di nuovo lo scontro. E pensare che ci eravamo quasi abituati all’idea che si fossero levati di mezzo. Domenica sono successe due cose molto importanti per quanto riguarda la guerra contro lo Stato islamico in Libia. La prima è che il Pentagono ha annunciato con un comunicato che due giorni prima, venerdì 22 settembre, i droni americani avevano bombardato un campo del gruppo terroristico in mezzo al deserto. La seconda è che lo Stato islamico in Libia ha rotto un silenzio che durava da 398 giorni e ha pubblicato un video fatto molto bene e lungo più di 17 minuti. Vale la pena di fare l’analisi di entrambe le cose perché ci sono dettagli rivelatori. Il comunicato diffuso da Africom, che è il comando americano che si occupa delle operazioni militari in Africa – ma ha base in Germania –, dice che i droni hanno colpito quel campo perché serviva per spostare uomini dello Stato islamico fuori e dentro il paese e per pianificare e lanciare attacchi.

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La distanza tra Libia e Italia

Questo conferma un titolo uscito sul Wall Street Journal dieci giorni fa, che avverte – grazie a fonti non meglio specificate dei servizi segreti occidentali – che lo Stato islamico vuole usare la Libia come “gateway to Europe”, porta d’ingresso per l’Europa. Difficile ridurre questi avvertimenti a semplici congetture. La divisione libica dello Stato islamico ha già usato il paese come piattaforma di partenza per attentati devastanti all’estero. La coppia di attentatori che nel marzo 2015 ha ucciso 21 visitatori occidentali al museo del Bardo, a Tunisi, si era addestrata pochi mesi prima in un campo a Sabrata, sulla costa libica a metà strada tra la capitale Tripoli e il confine tunisino. L’attentatore che tre mesi dopo il Bardo ha ucciso 38 turisti europei sulla spiaggia di Sousse si era addestrato nello stesso luogo – che serviva da hub, come dicono gli specialisti, da scalo per il via vai. E secondo gli investigatori inglesi anche il giovane libico che si è fatto saltare in aria fuori dal concerto di Ariana Grande, a Manchester, e ha ucciso 22 persone aveva imparato a costruire uno zaino esplosivo in Libia grazie agli istruttori dello Stato islamico e aveva visitato più volte Sabrata e Tripoli. Sempre lo stesso schema: si va in Libia, si acquisisce il know-how per attaccare e si torna nel luogo d’origine. Nel settembre 2016, un anno fa, una fonte che ha fatto parte dello Stato islamico in Libia pur essendo nata e cresciuta in un paese occidentale disse al Foglio che una parte degli sforzi dello Stato islamico per replicare gli attentati che hanno colpito l’Europa a partire da novembre 2015 (il Bataclan) passa per la Libia e lo diceva anche se era chiaro che ormai la battaglia del gruppo terroristico per conservare il territorio era persa, come poi succederà anche in Iraq e Siria.

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La fonte provò di essere credibile perché era in possesso di immagini e di video di uomini dello Stato islamico non pubblicati altrove. Tra questi, l’uomo passò al Foglio anche un video personale fatto con il telefonino da Tarik Jadaoun, un belga che l’anno scorso è stato definito “il nuovo Abaaoud”, con riferimento a Abdelhamid Abaaoud, il belga di origine marocchine che ha reclutato e guidato la squadra di fuoco del massacro di Parigi nella notte del 13 novembre 2015. Jadaoun è nelle cosiddette “operazioni esterne”, forse “era” perché è stato dichiarato morto, non è una cosa certa al cento per cento. Lo Stato islamico in Libia c’entra anche con Anis Amri, il tunisino che poi è diventato l’attentatore di Berlino pochi giorni prima del Natale 2016. Ma in questo caso i dettagli sono ancora segreti e siamo obbligati a usare quelle espressioni deplorabili che vogliono dire tutto e niente: “era legato”, “era in contatto”… Di certo c’è che il 17 febbraio 2016 la polizia tedesca che sorveglia Amri lo dichiara Gefährder (il termine usato quando un individuo rappresenta una minaccia). Il giorno dopo gli agenti bloccano Amri a una stazione degli autobus, gli contestano che il telefonino potrebbe essere rubato, glielo sequestrano, lo analizzano.

Gli agenti scoprono che Amri comunica con due numeri libici attraverso l’app Telegram, che è criptata. I servizi segreti tedeschi collegano quei due numeri allo Stato islamico. Salto in avanti a quasi un anno dopo: il 19 gennaio due bombardieri americani B-2 colpiscono due campi dello Stato islamico in Libia, nel deserto a sud di Sirte – è l’ultimo grande strike ordinato dall’Amministrazione Obama il giorno prima del passaggio di consegne a Trump – e uccidono ottanta guerriglieri. Il comunicato del Pentagono dice che tra loro c’erano anche alcuni uomini che si occupavano degli attacchi all’estero e che erano coinvolti nell’attacco di Berlino. Per colpa delle soliti ragioni di riservatezza e segretezza, vediamo gli eventi in fila ma non riusciamo a leggerli. Gli americani si erano fatti passare dai tedeschi i numeri libici trovati sul cellulare di Amri e li avevano localizzati e poi seguiti fino ad arrivare al campo nel deserto a sud di Sirte? Non possiamo saperlo perché nessuno lo dice in modo esplicito. Il punto è questo: negli ultimi quattro anni lo Stato islamico aveva tentato di colonizzare la Libia e gli è andata male, la colonia è stata polverizzata dai miliziani libici e dai bombardamenti americani, ma nel pulviscolo che è rimasto e che si deve ancora posare – si poserà mai davvero? – si nascondono ancora cellule operative molto discrete e efficienti. Questi gruppi sono piccoli, in alcuni casi sono composti soltanto da quattro-cinque uomini, si tengono lontani sotto la soglia dell’attenzione e continuano a lavorare. Così venerdì scorso i droni americani hanno lanciato sei attacchi contro un campo dello Stato islamico, alle sette del mattino, quando ancora i combattenti della cellula erano raggruppati, ne hanno ucciso diciassette e hanno distrutto i loro tre veicoli. Il presidente Donald Trump ha firmato l’ordine di attacco. Il luogo non è molto distante da quello del bombardamento di gennaio ed è ancora tenuto d’occhio come possibile focolaio – a fine agosto sono uscite le foto di non meglio specificate forze speciali occidentali in visita sul posto. Nel comunicato del Pentagono manca però un dettaglio che è stato rivelato dal giornalista Eric Schmitt del New York Times.

I droni americani che hanno effettuato il bombardamento sono decollati da una base in Sicilia (la prima indiziata è Sigonella, ma ci sono anche Birgi vicino Trapani e l’isola di Pantelleria). Questo è interessante perché secondo una politica comune stabilita nel febbraio 2016 i droni americani non possono partire dalla Sicilia per bombardare in Libia, il governo italiano non ha concesso l’autorizzazione a missioni armate tranne che in alcuni casi. Per esempio, quando il giorno dopo la strage di Parigi due aerei americani hanno bombardato a Derna, vicino a Bengasi, e hanno ucciso il leader dello Stato islamico in Libia (l’iracheno Abul Mughirah al Qahtani) erano decollati da una base in Inghilterra, a un’ora di volo. Fossero partiti dalla Sicilia avrebbero ridotto il tempo a un quarto, ma appunto c’è l’interdizione dell’Italia, che non vuole sbilanciarsi troppo. Una condizione per usare le basi italiane è per esempio che ci siano forze speciali americane a terra in Libia in una situazione di pericolo: allora l’autorizzazione ai bombardamenti c’è. Oppure, sempre secondo le linee guida concordate tra Roma e Washington, si può valutare “caso per caso”. E perché il governo italiano venerdì scorso ha detto sì, se persino per ammazzare il capo dello Stato islamico in Libia il giorno dopo il massacro del Bataclan i jet americani erano dovuti partire dall’Inghilterra? Perché il governo italiano ha valutato che questa volta era necessario agevolare il bombardamento di un campo dove lo Stato islamico preparava attacchi esterni? Una ragione probabile è che considera l’Italia come un possibile bersaglio degli attacchi esterni. Un ultimo punto interessante che riguarda ancora il comunicato del Pentagono. Il testo cita per due volte il Governo di Accordo nazionale e il premier libico Fayez al Serraj – e anche “le forze allineate”, per non escludere nessuno, nemmeno le milizie di Misurata – con parole molto gentili di gratitudine e di collaborazione.

La questione spicca perché è da gennaio che la Libia attende un cenno qualsiasi da parte dell’Amministrazione Trump: da che parte sta nella rivalità tra Serraj, capo di Tripoli, e il generale Khalifah Haftar, signore della Cirenaica? La questione per ora è irrisolta perché Trump non si è ancora mai pronunciato, ma è chiaro che un comunicato del Pentagono così carezzevole nei confronti di Serraj e del suo governo, definiti “partner coraggiosi e preziosi nella guerra contro il terrorismo”, lascia il segno (e fa imbufalire Haftar). Soprattutto se è un bombardamento fatto in cooperazione con l’Italia, che in questo momento è partner strategico – o meglio: sponsor strategico – di Tripoli per la questione immigrazione. L’articolo già citato del Wall Street Journal chiarisce un punto interessante: come fanno gli uomini dello Stato islamico a muoversi tra la Siria e Iraq, dove ormai per loro è un inferno, sono circondati da forze ostili, curdi, milizie sciite, soldati dell’esercito iracheno, tutti vogliosi di prendersi vendette, e la Libia dove pure ormai c’è un certo livello di sorveglianza? E’ chiaro che il 2017 non è più il 2014, quando ancora si godeva di un’ampia libertà di movimento – alcuni capi sono arrivati in Libia a bordo di imbarcazioni. L’anello mancante era il Sudan, territorio con molti problemi di controllo che condivide un pezzo di confine con la Libia. Se uno indossasse i panni di un terrorista e fosse consapevole di non poter atterrare a Heatrhow, al Charles de Gaulle o a Fiumicino, allora potrebbe pensare con qualche probabilità di successo di raggiungere la Turchia con un documento falso e da lì volare verso il Sudan, da dove poi è possibile attraversare il confine con la Libia, attraversare il sud desertico e arrivare a sud di Sirte, dove lo Stato islamico è più forte. A novembre 2016 nella capitale Khartoum la polizia sudanese su indicazione dei servizi segreti italiani ha arrestato Moez Fezzani, conosciuto anche come Abu Nassim, cinquantenne tunisino che era il capo dello Stato islamico a Sabrata, che è la città dove si sono addestrati tutti gli uomini spediti all’estero a fare stragi. Fezzani ha trascorso molti anni a Milano, dove ha lavorato ed è stato in carcere per estremismo, e poi prima della Libia è stato in Siria.

A Sabrata si occupava di spostare uomini dello Stato islamico fuori e dentro il paese e di pianificare e lanciare attacchi, che è quello che stavano facendo anche gli uomini uccisi venerdì scorso – che di Fezzani sono i successori ideali. Dove stava andando il tunisino quando è stato arrestato? Stava aspettando qualcuno? Tutta la storia dell’arresto di Fezzani “l’italiano” è coperta da uno strato di segretezza, ma si vede sempre il tema di fondo: la partita dei servizi di sicurezza internazionali e italiani in primo piano per impedire allo Stato islamico di vivere una seconda vita – dopo la prima, fatta di grandi parate pubbliche e di esecuzioni in piazza, poi terminata con una disfatta militare totale – di vivere una seconda vita come quartier generale per gli attacchi contro l’Europa o gli europei. Veniamo al video, che è stato girato con maestria tecnica. L’idea di fondo è suggerire che lo Stato islamico rivive in Libia i tormenti della cosiddetta età del deserto, un periodo molto mitizzato dagli agiografi del gruppo, quando in Iraq dopo la crisi arrivata per colpa della collaborazione tra iracheni e americani i combattenti si rifugiarono nelle zone più desertiche del paese. Era circa il 2010 e ancora oggi nei video i capi dello Stato islamico parlano di quel tempo come di una prova divina che separò i veri credenti dai deboli, un tempo di redenzione per i duri e di perdizione per i traditori. E quindi nel video vediamo gli uomini dello Stato islamico libico pregare nel deserto al riparo di un costone di roccia, riposare dentro una grotta, muoversi in convoglio con le jeep attraverso le dune e sotto un arcobaleno – una scena molto romantica, la ragione è che le nuvole impediscono i raid aerei – impastare il pane e cuocerlo sotto la cenere. Si tratta di un ovvio messaggio di resistenza anche per i pezzi maggiori del gruppo che stanno perdendo in Iraq e in Siria. Oltre a questa idea di fondo, ci sono un altro paio di spezzoni significativi.

Gli uomini dello Stato islamico improvvisano posti di blocco in mezzo alla strada a sud di Sirte, vogliono ostentare il fatto che possono tornare a controllare il territorio. Attaccano all’alba un piccolo posto di guardia dell’eser - cito di Haftar, dove decapitano alcuni soldati (il generale dev’essere davvero indispettito, a lui toccano gli attacchi e Serraj incassa i meriti della collaborazione). E’ qui che un soldato dello Stato islamico alza la testa di un soldato e promette davanti alla telecamera attacchi contro la Francia, l’America e l’Italia. Infine un paio di autobomba filmate con un drone, il che di nuovo suggerisce il recupero di un buon livello di tecnica. Se c’è una legge fondamentale dello Stato islamico, è che tende a non gonfiare il numero delle forze nei video, anzi, c’è l’effetto “punta dell’iceberg”: se mostra qualche scontro, è perché sotto c’è di nuovo una struttura capace di appoggiare questi raid. I cugini dello Stato islamico in Sinai, che devono affrontare il volume di fuoco dell’esercito egiziano, ancora non si sono dati per sconfitti, figurarsi se anche i libici non pensano di potere continuare la guerra. A questo punto tuttavia non ci si può più affidare soltanto ai voli di ricognizione occidentali e ai successivi bombardamenti di precisione: più le due Libie cincischiano, evitano la riconciliazione politica come fosse un disonore e lasciano spazi aperti da riempire, più lo Stato islamico si farà di nuovo sotto. Come se i suoi fanatici non avessero già ampiamente dimostrato che le ripartenze dal fondo sono la loro specialità. Considerato che abbiamo già visto tutti di cosa sono capaci, sarebbe meglio sbrigarsi.

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