Referendum in Kurdistan, oltre l'80% sceglie l'indipendenza Commento di Giordano Stabile che informa, il conformismo di Lorenzo Cremonesi
Testata:La Stampa - Corriere della Sera Autore: Giordano Stabile - Lorenzo Cremonesi Titolo: «Kurdistan, voto di massa per l'indipendenza - Da Ankara all’Iran tutti contro il referendum Anche l’Onu»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/09/2017, a pag.14 con il titolo "Kurdistan, voto di massa per l'indipendenza" il commento di Giordano Stabile; dal CORRERE della SERA, a pag. 19, con il titolo "Da Ankara all’Iran tutti contro il referendum Anche l’Onu", il commento di Lorenzo Cremonesi.
Anche oggi solo la STAMPA tra i quotidiani italiani informa sul Kurdistan in modo corretto. L'articolo del CORRIERE della SERA di Lorenzo Cremonesi, invece, si adegua in modo conformista alla vulgata prevalente, quella di regimi oscurantisti e negatori di ogni diritto umano e civile, come Iran e Turchia.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Giordano Stabile: "Kurdistan, voto di massa per l'indipendenza"
Giordano Stabile
Si sono vestiti a festa. Le donne con i lunghi abiti a disegni floreali, i veli trasparenti, a volte ricamati in oro, gli uomini in choka, il vestito tradizionale dalla larga fascia in vita. Arrivano con i bambini in braccio o per mano, come a un matrimonio, a una celebrazione. È il «grande giorno». Il battesimo del Kurdistan indipendente. Si sono messi in fila al mattino presto, prima ancora che aprissero i seggi. «Aspettiamo da tanti anni, non potevamo arrivare in ritardo», scherza Mahmoud Fahmi, un ottico di 37 anni, con un grande sorriso e gli occhi battaglieri: «Alle minacce siamo abituati, ci hanno sempre ricattati, non sarà peggio adesso che siamo indipendenti: se poi passano ai fatti, abbiamo tutti il kalashnikov in casa, vengano».
A Bakhtiari, il quartiere benestante di Erbil, allo sfoggio dei vestiti si aggiunge quello dei fuoristrada parcheggiati senza curarsi di nessuno davanti ai jersey di cemento che bloccano la strada prima di arrivare ai seggi, in una scuola elementare. È l’unica misura di sicurezza, a parte un agente della polizia «asaysh», accasciato su una sedia davanti all’ingresso. Il timore di attacchi da parte dell’Isis è relativo, gli islamisti sono in rotta e i peshmerga hanno steso un cordone di sicurezza lungo tutti quelli che saranno i futuri confini. «Abbiamo dato il sangue – continua Fahmi -: 1.500 martiri nella guerra contro l’Isis. Ora non vogliamo avere più niente a che fare con l’Iraq, quando vado all’estero mi vergogno del mio passaporto iracheno».
Tutti sono certi che il sì «stravincerà». I risultati definitivi si sapranno domani. Quello che conta è l’affluenza, quanti dei 5,3 milioni di elettori registrati sono andati al voto. Per tutto il giorno la tv ufficiale Rudaw trasmette le immagini delle lunghe file, l’apertura dei seggi viene prolungata di un’ora, fino alle sette. Poco dopo sempre Rudaw comincia a snocciolare i dati della partecipazione: Erbil 84 per cento, Kirkuk 80, Duhok 90, Zakho 94, Akre 94, Nineveh 80... Sono i nuovi distretti che suddividono il territorio del Kurdistan, per lo meno quello che a Erbil vogliono sia il futuro territorio del Kurdistan indipendente.
I confini sono stati spinti in aree dove è forte il popolamento arabo e di altre minoranze come gli yazidi, i kakai, gli shabak, i turkmeni, i circassi, un mosaico. Il presidente Massoud Barzani però conta di integrarli, anche per portate la popolazione a 7, forse 8 milioni di abitanti, una soglia critica per avere la dimensione di uno Stato. La politica di accoglienza nei confronti dei cristiani scappati da Mosul ha dato i suoi frutti. Nel quartiere a maggioranza cristiana di Ankawa sono andati in massa alle urne. «La verità è che è impossibile per noi tornare a Mosul – spiega Ashraf Fawas, un ingegnere civile di 39 anni -. Questa sarà la nostra nuova patria e vogliamo contribuire subito. A Erbil ci siamo sentiti per la prima volta al sicuro, in Iraq mai».
La «carta cristiana» sarà decisiva per imporre l’autorità del Kurdistan nei territori attorno a Mosul, ma non è lì che si gioca la partita decisiva. Mentre i curdi votano il Parlamento di Baghdad adotta una mozione che «obbliga» il primo ministro Haider al-Abadi, «nella sua qualità di capo delle forze armate» a «schierare l’esercito a Kirkuk e in tutte le zone contese». Erbil risponde con l’imposizione del coprifuoco nella città petrolifera, la cassaforte del futuro Stato. Ma il governo iracheno lavora con i suoi più stretti alleati in questo frangente, Turchia e Iran, per stringere l’assedio. Teheran lancia manovre militari nella zona di confine dove vive la sua minoranza curda, Ankara, che ha già schierato le truppe, minaccia il blocco economico.
«Possiamo chiudere il rubinetto quando vogliamo», sintetizza il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il rubinetto è quello dell’oleodotto che porta il petrolio curdo in Turchia e Europa. Senza gli introiti del greggio per Erbil è finita: «Voglio vedere attraverso quali canali il governo dell’Iraq del Nord (così chiama il Kurdistan) potrà vendere il suo petrolio». Il rubinetto per ora resta aperto, e anche il valico di Khabur. Erdogan chiama al telefono il presidente russo Vladimir Putin, che vedrà giovedì ad Ankara, e insieme ribadiscono l’impegno per «l’integrità territoriale» dell’Iraq e della Siria. È notte, a Erbil esplodono i fuochi artificiali e i caroselli impazziti dell’auto. Lo stesso succede nelle città curde in Siria, e in Iran. Le «integrità territoriali» traballano da tutte le parti e i confini in Medio Oriente non sono mai stati così fragili da un secolo a questa parte.
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi: "Da Ankara all’Iran tutti contro il referendum Anche l’Onu"
Lorenzo Cremonesi
Una vittoria sulla carta che nei fatti può trasformarsi in una catastrofe: dal relativo benessere e dalla simpatia conquistata tra la comunità internazionale nella lotta contro Isis, alla tragedia della guerra, delle divisioni interne, nell’isolamento quasi totale. Tanti sono i rischi presi dai dirigenti della regione autonoma curda in Iraq nell’aver scelto ieri di continuare imperterriti sulla via del referendum per l’indipendenza da Bagdad, nonostante il crescere del fronte contrario tra amici e nemici storici. A prima vista il progetto voluto con caparbia e coerenza dal presidente Massoud Barzani può apparire come il logico compimento di un meritato sogno nato dallo sfaldamento dell’Impero Ottomano un secolo fa e poi guadagnato in decenni di lotte e sofferenze. «Volete che la regione del Kurdistan e le aree curde limitrofe divengano un Paese indipendente?», recitava la domanda presentata nelle urne ieri ai 5,2 milioni di curdi iracheni (oltre il 15% della popolazione dell’Iraq). Il tasso di partecipazione ha superato il 76% e i media locali parlano di un «sì» scontato, che verrà annunciato nelle prossime ore. Per chi ricorda il dramma degli attacchi con le bombe chimiche da parte dell’esercito di Saddam Hussein contro i villaggi curdi tre decadi fa tutto ciò può sembrare giusto e legittimo. Eppure, già le prime reazioni sul terreno rivelano un futuro minaccioso. Bagdad prima tra tutti parla di una possibile invasione contro le forze che vogliono «smembrare l’unità del Paese».
L’esercito nazionale, assieme alle milizie sciite, che sino a ieri combattevano spalla a spalla con i Peshmerga (le forze militari curde irachene) contro Isis, potrebbe nelle prossime ore puntare su Erbil e Sulaymaniyah. Simbolo delle tensioni è la città petrolifera di Kirkuk, con la sua massiccia popolazione turcomanna, sciita e sunnita, dove ieri i militari curdi avevano imposto il coprifuoco addirittura due ore prima della chiusura dei seggi. Più gravi ancora per Barzani sono però le critiche della Turchia di Erdogan. Da alleato e maggior partner economico dell’autonomia curda, il presidente turco si schiera adesso con Bagdad, dispiega i soldati sul confine e minaccia di chiudere il passaggio di uomini e merci. «Considero il risultato del referendum nullo e vuoto», tuona. La sua preoccupazione è quella di sempre. Erdogan teme che la febbre indipendentista possa diffondersi a macchia d’olio tra la minoranza curda in Turchia e farà di tutto per impedirlo, come del resto sta già facendo contro le milizie curde in Siria. Anche Teheran prospetta di bloccare gli scambi economici e reprimere ulteriormente la minoranza curda iraniana. Per una volta i toni degli Ayatollah non sono molto diversi da quelli di Washington, dove da mesi è categoricamente criticata la scelta del referendum. Tanto che in serata l’Onu ha emesso un comunicato sugli «effetti destabilizzanti» della mossa curda.
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