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La Stampa Rassegna Stampa
23.09.2017 Kurdistan: lunedì il referendum. Chi sta dalla loro parte
Analisi di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 23 settembre 2017
Pagina: 14
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «Tra i curdi che sognano l'indipendenza ' basta trattare, è un nostro diritto'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/09/2017, a pag.14 con il titolo " Tra i curdi che sognano l'indipendenza ' basta trattare, è un nostro diritto' ", l'analisi di Giordano Stabile.

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Giordano Stabile            le tre bandiere pro Kurdistan

Lo stadio di Erbil è così pieno che la gente si è assiepata fin sulla terrazza del grande magazzino Carrefour alla sue spalle. Settanta, ottantamila persone sugli spalti e nel prato, che premono come forsennati sulle transenne. È come una finale di calcio e gli slogan sono quelli degli ultrà. «Gubukhé, Abadì», Al-Abadi vai a cagare. Il premier iracheno è il primo bersaglio, ma ce n’è anche per Trump che ora non vuole riconoscere il Kurdistan indipendente, anche se l’America, comunque, resta la grande amica. «Amrika, Amrika». E poi «Israil, Israil». Sventola una bandiera con la Stella di David: Israele è l’unico Stato ad aver riconosciuto l’indipendenza, prima ancora che venga proclamata. Un boato sottolinea l’ingresso di Massoud Barzani. Il presidente. Ora più che mai. Sulla tribuna d’onore ci sono tutti i pezzi grossi del suo Kurdish democratic party. E poi leader religiosi, sceicchi delle tribù arabe, il vescovo caldeo Bashar Warda. Lo abbracciano. Il Kurdistan sarà multietnico e plurireligioso, è il messaggio. In maniche di camicia, il governatore di Erbil, «città capitale del Kurdistan», introduce il discorso più atteso, quello del «dado è tratto». Barzani è nel tradizionale abito curdo con in testa il turbante a strisce bianche e rosse. L’inizio è esitante, il clamore della folla si calma, c’è tensione perché le voci si stanno accavallando e il timore è che il raiss curdo abbia ceduto alle pressioni internazionali, l’ultima quella del Consiglio di sicurezza dell’Onu che nella notte gli ha chiesto di posticipare il referendum sull’indipendenza. Mancano ancora tre giorni a lunedì, tutto può succedere. Ma poi il vecchio condottiero comincia a scaldarsi, la voce si fa più sicura, potente: «Che cosa possiamo ancora trattare? Baghdad ci ha sempre promesso tutto e non ci ha mai dato nulla. Ora non è più tempo di discussioni. L’indipendenza è un nostro diritto. Andiamo avanti». Avanti, quello che la folla vuole sentirsi dire, avvolta nelle bandiere, con il Sole giallo del Kurdistan ancora più caldo alla luce del tramonto. La marcia per l’indipendenza è un fiume in piena. Non saranno gli ultimatum della Corte Suprema irachena a fermarla. E non saranno neanche le armi. «Abbiamo dato il sangue, nessuno può spezzare la nostra dignità e la nostra volontà. Abbiamo sconfitto lo Stato islamico, ci siamo sacrificati per il mondo». E poi l’affondo definitivo contro Baghdad: «Governi precedenti ci hanno gasato, i curdi sono passati attraverso il genocidio. E ora dicono “siamo fratelli”. Come possiamo essere ancora fratelli?». Il riferimento è alla strage con il gas Sarin di Halabaja, 16 marzo 1988, cinquemila morti, e alla campagna Al-Anfal lanciata da Saddam Hussein, centomila vittime curde. Su quei morti si basa la legittimità, il diritto all’autodeterminazione. Dalle persecuzioni di Saddam è nato anche il sostegno internazionale che dalla Prima guerra del Golfo in poi, 1991, ha fatto del Kurdistan uno Stato indipendente di fatto ma non di nome. La costituzione del dopo Saddam ha puntato a un federalismo spinto. Ma ora non basta più, anche perché Baghdad non ha mai versato a Erbil il 17 per cento degli introiti petroliferi, come stabilito. La Russia di Putin sembra essersi adeguata. Lo Zar ha detto di non voler «interferire» e avrebbe già strappato un contratto da 4 miliardi per la costruzione di un gasdotto. Washington, Bruxelles invece premono, ogni giorno, perché Barzani rinunci al passo formale verso l’indipendenza e accetti un federalismo ancora più spinto. Il leader curdo non può fermarsi, vede una finestra d’opportunità che può chiudersi in pochi anni, se non mesi. Gliela ha data il califfato. Il regno di Abu Bakr al-Baghdadi è quasi finito ma ha squassato le fondamenta dell’Iraq. L’esercito iracheno è ancora debole, esausto dopo la battaglia di Mosul. I Peshmerga curdi sono più forti che mai, con le armi ricevute per combattere la minaccia jihadista. L’avventura del califfo ha consegnato al Kurdistan anche nuovi pezzi di territori e soprattutto Kirkuk che nel 2014 l’esercito iracheno ha abbandonato e i Peshmerga hanno salvato. Kirkuk è una città dalle mille etnie e religioni, curdi, turkmeni, arabi sunniti e sciiti, cristiani siriaci. I curdi non sono più maggioranza da decenni ma se la vogliono tenere con tutti i pozzi di petrolio. Potrebbe essere la scintilla per una nuova guerra civile. Ma non è il momento di pensarci. Finito il discorso la gente, ubriaca di entusiasmo, balla e canta sulle note della star nazionale Zakaria. Kurdistan, Kurdistan.

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