IC7 - Il commento di Lia Levi
Dal 10 al 16 settembre 2017
Cinquantanni fa e l’oggi: quei sei giorni nell'anima ebraica
Lo scorso giugno si sono celebrati i “50 anni del giornale Shalom” e, in non casuale contemporanea, l’anniversario della “Guerra dei sei giorni”. Non casuale appunto perché i due avvenimenti sono strettamente concatenati. L’idea di dare vita ad un foglio ebraico che si facesse portavoce “all’esterno” delle ragioni di Israele aveva preso corpo proprio quando una diffusa e crescente angoscia per la sorte dello stato ebraico pareva aver finalmente sopito l’ostilità con cui un’opinione pubblica nel solco della sinistra, aveva costellato il sorprendente sviluppi del paese. Ma quella sospensione è durata poco più di un attimo. Era solo stata una caduta emotiva. Il piccolo drappello (di cui facevo parte) che aveva pensato fosse quello il momento di tirar fuori una voce ebraica diretta aveva avuto l’intuizione giusta. Ben presto quelli che erano riusciti ad avere la meglio nei confronti dei propri sopraffattori si trasformarono in portatori insani “dell’inaccettabile concetto di guerra preventiva” con tutto il resto a seguire. Un “nostro giornale” acquistò man mano sempre più senso.
Ma occorre fare un passo indietro. Sia chiaro, il fatto che un fenomeno sia stato limitato nel tempo nulla toglie ad una sua funzione di dirompente forza d’impatto. In quei giorni di sospensione, mentre Radio Cairo continuava a proclamare che “il popolo arabo è fermamente deciso a spazzare via Israele dalla carta geografica” si è davvero assistito ad un terremoto delle coscienze. Un piccolo paese, accerchiato e attaccato da una marea di stati arabi coalizzati, quanta possibilità aveva di sopravvivere? E’ stato l’affacciarsi del termine “nuovo Olocausto” quello che faceva quasi tremare l’aria. La società si ritraeva con orrore e paura di fronte alla prospettiva del ripetersi dello Sterminio.
I fatti storici sono noti, ma chi, come me, ha vissuto questi accadimenti all’interno di un improvvisato ufficio stampa nei locali della comunità romana, può forse tentare di trasmettere le vibrazioni captate tra la variegata folla che le gravitava attorno. Era stato un istinto generalizzato a spingere la gente a confluire verso la sinagoga e gli adiacenti uffici. C’erano ebrei e anche non ebrei, le persone sostavano lì, mute, neanche più notizie chiedevano, tanto si sapeva che dalla radio arrivavano solo quelle trionfalistiche e menzognere di fonte araba. Ma quando si sentì annunciare “Tel Aviv è in fiamme” molti cominciarono a piangere. Accanto all’angoscia trovava però ampio spazio anche la solidarietà. “Siamo con voi” era il tenore dei messaggi che arrivavano sotto le più diverse forme, persino le centraliniste del servizio telefonico sentivano il bisogno di esprimere il loro personale appoggio prima di passare le chiamate interurbane.
Soldati israeliani a Gerusalemme durante la Guerra dei sei giorni
Per la parte ebraica il discorso è più complesso. Credo che non ci si sia abbastanza soffermati sul fenomeno di quanti ebrei “lontani” si siano fatti avanti in quei giorni. “Ebreo del kippur” è il noto termine passato anche in letteratura, con cui vengono definiti quei laici che ritrovano la loro identità ebraica solo nel giorno del grande Digiuno rituale. Che siano improvvisamente emersi anche degli “ebrei della guerra dei sei giorni” non è stato mai preso in considerazione. Eppure è stato un fenomeno importante. Forse, paradossalmente, sono stati i figli di Israele che più avevano preso la distanza dallo stato ebraico quelli che si sono mostrati più terrorizzati dall’idea di perderlo.
Per fare un esempio singolo, ma sintomatico (l’aneddotica personale ha spesso un impatto più diretto sulla ricezione globale della realtà) ho il ricordo di un amico che aveva diretto l’Unità per un certo periodo di vita tenendo a bada la propria declinazione ebraica nel momento in cui pubblicava “Israele pupilla prediletta dei magnati di Wall Street” e altri slogan del genere. Ebbene, questo giornalista ebreo, nei giorni del pericolo di Israele, era talmente in apprensione da non aver la forza di ascoltare il notiziario serale della tv se non sorretto dalla compagnia della nostra famiglia. E’ stato così, gomito a gomito, con l’antagonista di certe nostre aspre discussioni che siamo finiti a dividere la medesima ansia per sei serate consecutive.
Un esempio, dicevo, ma abbastanza simbolo dei laceranti percorsi interni che hanno dilaniato a diverso titolo gli ebrei di allora. E’ qualcosa che forse merita di essere conosciuto dalle generazioni che allora non c’erano. Ma certo, per uno di quei crudeli moti di autolesionismo da cui talvolta ci capita di essere affetti, il pensiero ci spinge a riflettere nel nostro interno su eventuali rispondenze con l’oggi”.
La situazione, è ovvio, è totalmente diversa. I mutevoli schieramenti degli stati mediorientali, i giochi di potere delle grandi potenze e un Israele forte e altamente tecnologico ci pone di fronte a scenari la cui lettura costringe anche gli esperti della politica a continue rielaborazioni. Ma le ragioni e, di più, i “torti” dello Stato Ebraico continuano imperterriti a mantenere sempre incandescente il dibattito nel mondo democratico. “Fermo restando il diritto di Israele all’esistenza” è la formuletta che, quasi in automatico, scatta ad esercitare il suo ruolo di salvaguardia delle coscienze. Nessuno, se interrogato individualmente, la rinnegherebbe. La realtà però non la si camuffa con poche parole politicamente corrette.
Tutti quelli che, con ammiccante indulgenza, fingono di credere che attraverso i tunnel sotterranei di Gaza passi del latte in polvere per bambini e che Teheran abbia davvero virtuosamente accettato di destinare il nucleare solo a scopi civili, non appoggiano nei fatti quegli stati e movimenti che lo Sterminio lo perseguono come obiettivo centrale della loro esistenza?
“Totò il buono” nel libro di Zavattini (diventato nel cinema “Miracolo a Milano”) annuncia alla fine che intende volare in un mondo dove buongiorno vuol dire veramente buon giorno. Ecco, il diritto di Israele a esistere dovrebbe essere proclamato di meno e pensato di più.
Lia Levi, scrittrice. Le sue opere, tra cui il bestseller "Una bambina e basta", sono pubblicate dall'editore e/o