Le liriche yiddish di Kadye Molodowsky Recensione di Giulio Busi
Testata: Il Sole 24 Ore Data: 17 settembre 2017 Pagina: 30 Autore: Giulio Busi Titolo: «Molodowsky, che liriche!»
Riprendiamo dal SOLE24ORE-DOMENICA di oggi, 17/09/2017, a pag. 30, con il titolo "Il male consapevole" la recensione di Giulio Busi.
Giulio Busi
Kadye Molodowsky, «Sono una vagabonda». Liriche scelte, a cura di Alessandra Cambatzu e Sigrid Sohn. Nota di Kathryn Hellerstein, Free Ebrei, Torino, pagg. 221, euro 7,84
Merkavah, «carro», è la parola ebraica che indica il segreto divino. Il carro celeste è il simbolo della dottrina mistica, l'essenza misteriosa dell'ordine del cosmo. Non un'imponente cattedrale di luce, ma un veicolo, in continuo, fulmineo movimento. Il Dio inconoscibile si muove, sfugge allo sguardo, corre le nuvole, s'inabissa nei cuori, si avvolge dei cieli dei cieli. Srotola l'orizzonte, scuote il proprio manto di lettere, lo agita, lo raccoglie, lo stende. Dio di nomadi, che rifugge dagli agi sedentari, diasporica divinità di diaspora, il cui Esilio precede ogni esilio. «Persino i cieli non possono contenerlo» (i Re 8:27). Troppo smisurato per l'immobilità, il Dio d'Israele vive della distanza. E la distanza, l'anelito a guadare il fiume dell'essere, a dislocarsi per trovare e trovarsi, rimane anche quando i riti impallidiscono, nei tempi - lunghi, drammatici - in cui la Shekinah, la Presenza divina, si eclissa.
Sono una vagabonda. È la firma di Kadye Molodowsky, tra le più grandi poetesse yiddish di metà Novecento. Vagabonda per vita, dalla Bielorussia in cui nasce nel 1894, alla Varsavia dell'impegno politico, della letteratura e delle speranze sioniste, agli Stati Uniti dell'esilio, a Israele, amata e non trovata, e di nuovo al rifugio statunitense, sino alla morte, a Filadelfia, nel 1975. Soprattutto, Molodowsky è vagabonda perché la letteratura la trascina, la spinge, la strattona. Sono i suoi versi a portarla con loro, dove c'è bisogno di qualcuno che dica e sogni al posto di chi non può più farlo. Versi-angeli, mattinieri, servizievoli, instancabili: «Arrivano gli angeli a Gerusalemme / ancor prima che il sole sorga, / ancor prima, ancor prima. / Vestono abiti / incisi e ricamati - / la Shekinah illumina / i loro vestiti rappezzati». Non si fermano mai a lungo. Giungono alla spicciolata, ripartono assieme.
Nessun secolo ha mai avuto altrettanta sete di poesia. Nel Novecento la poesia è morta. Poi è rinata, col volto pallido di chi torna dalla Terra del Non. Col volto gioioso di chi, nonostante tutto, vuole ricominciare. Per questo gli angeli di Kadye Molodowsky si vestono da muratori, danno una mano, manovali della speranza: «Arrivano gli angeli a Gerusalemme / e camminano sulle vie non ancora lastricate. / Portano la sabbia, / trasportano le pietre». Forse, come narra il Talmud, gli angeli non conoscono l'aramaico, ma certo possiedono ogni segreto dell'yiddish. Gli angeli dello sterminio conoscono a menadito la lingua degli sterminati. I messaggeri di morte parlano la lingua dei milioni di morti della Shoah, e sanno trasformarla in vita.
Questo libro di poesie è anche un omaggio ad Alessandra Cambatzu, fine traduttrice e intellettuale vivacissima, scomparsa prematuramente dopo aver portato in italiano, assieme a Sigrid Sohn, le parole-carri della Molodowsky. Per ogni angelo che arriva, un altro riparte. «Ancor prima che il sole sorga, / ancor prima, ancor prima».
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