Riprendiamo dalla REPUBBLICA - ROBINSON di oggi, 17/09/2016, a pag.14, con il titolo "Il potere ci ha rubato il mestiere" l'intervista a Gary Shteyngart di Francesca De Benedetti.
Francesca De Benedetti
Gary Shteyngart
II suo memoir si intitola Mi chiamavano piccolo fallimento, ma la verità è che prima d'ora non c'era nulla in cui lo scrittore umoristico Gary Shteyngart non fosse riuscito. O almeno, gli era riuscito di prendere in giro tutti: l'amore, la vita e le alte sfere di ogni tipo. «Mi sono fatto beffa pure del Vecchio Testamento», racconta lui, ebreo, nato quarantacinque anni fa a Leningrado e impiantato a New York da bambino. Con il suo primo libro, Il manuale del debuttante russo (Guanda, 2003), Shteyngart ha cominciato a inanellare premi: quella storia di nevrotici e immigrati rivelava un incredibile talento nel deridere tutto. Al punto che il New Yorker, dopo averlo definito "uno dei migliori scrittori under quaranta", lo ha "adottato" nelle sue colonne. Poi sono usciti Absurdistan e Storia d'amore vera e supertriste (sempre Guanda), ma ora che sta finendo il nuovo libro, Shteyngart ammette: ha il «blocco dello scrittore umoristico». Nessuna mancanza di idee, il problema è un altro: la realtà lo ha sorpassato da destra. «Che guaio», dice lui, «ho un presidente che è una barzelletta». Prima prendeva in giro il potere, Shteyngart. Ora «è lui che prende in giro me». L'umorismo si è trasformato da rivoluzionario a mercenario dei potenti: ecco perché la sua sopravvivenza è a rischio.
Come ha iniziato a fare dell'ironia, o meglio a scriverla? «È tutta colpa, o merito, di un'educazione rigida. Ho scoperto di avere una vena umoristica quando da ragazzino studiavo in una severa scuola ebraica nel Queens. Erano gli anni della Guerra fredda e i miei compagni mi odiavano: io ero quello strano con l'accento sovietico. Poi mi ribellai alle regole e scrissi una versione satirica della Torah. Lì ho scoperto che il potere dello humour è universale ed è un ottimo passaporto per stringere amicizie. Devo a quelle risate tra compagni il mio sentirmi per la prima volta americano».
L'umorismo nasce per sovvertire le regole. «Io sono cresciuto a pane e barzellette su Breznev. I miei erano gente tosta, ma non per questo non amavano divertirsi. La miglior lezione che mi abbiano impartito è: non sopravvivi se non sai ridere della vita».
L'ironia era un modo per sfuggire alle rigidità del regime. Oggi a usare certi toni e le barzellette è un presidente, il suo: Donald Trump. Ed è capitato anche nella politica italiana. Non sarà che il potere ha cambiato stile e ha rubato le battute? "Trump ha preso la battuta e l'ha usata come arma. Pure lui è newyorchese, e questa è la città più ironica al mondo: sarà per tutte le differenze e i paradossi che hanno messo casa qui. The Donald ha preso tutto ciò e l'ha trasformato in proiettili: ha insinuato il razzismo nelle battute, ha inquinato l'ironia. L'umorismo serviva a irridere l'autorità, ora è il potere, la sua violenza, a trasformarsi in barzelletta».
La letteratura umoristica latita? Sarà per questo? «L'umorismo non è morto ma non sta molto bene. Guardo al mio orticello, la letteratura, e devo dire che diventa sempre più piccolo. Ma ci sono esemplari brillanti: penso all'umorismo jewish, che fa parte della mia tradizione; o al filone britannico; penso al primo statunitense ad aver vinto il Man Booker Prize, Paul Beatty. Avere un presidente-barzelletta inibisce, ma dovremo trovare la strada per resistere».
Il "politicamente corretto" ha azzoppato l'ironia? «No. Io non mi sono mai fatto scrupoli nel farmi gioco di nessuno: di fronte alla battuta, non esistono intoccabili».
Magari l'umorismo va forte in tv o su altri media? Forse la letteratura non sta bene, ma sta meglio Twitter? «Negli Usa abbiamo una forte tradizione in fatto di stand-up comedy, la battuta in tv galoppa. Anche i 140 caratteri possono essere efficaci, mi piace per esempio l'uso che ne fa lo scrittore William Gibson. Ma Twitter può pure trasformarsi in un'arma antidemocratica, basti guardare che uso ne fa Trump”.
Da questa malinconia lei non si libera. Proprio lei vuol dirci che questa non è più l'epoca delle risate, è solo l'era dell'ansia? «La realtà è così grottesca che l'umorismo quasi collassa. Quando il confine tra fatti e parodia, tra fake news, è così fragile, diventa difficile spiazzare. A me ha sempre affascinato la distopia, nei romanzi la faccio andare a braccetto con la satira. Ma capita sempre più spesso che la mia immaginazione preceda la realtà: ha sentito di quel passeggero trascinato fuori da un aereo un anno fa? Lo avevo scritto in un libro. Al momento scrivo di un tizio che si occupa di hedgefund, ha un tracollo e decide di attraversare gli Usa in corriera nel 2016, l'anno delle elezioni. Non posso negare che il mio umorismo con il tempo si evolva: ora avverto una malinconia strisciante. Però...».
Però si può ancora far ridere? Magari delle nuove élite, degli uomini della finanza o della Silicon Valley? «È facile ridere di quei tizi lì: vivono in un mondo tutto loro, inconsapevoli di come se la passa la classe media. Certo che si può ancora far ridere. Anzi, si deve. Se rileggendo ciò che scrivo non mi scappa una risata, allora mi licenzio da solo: ridere, per me, è resistere».
Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante