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Il Foglio Rassegna Stampa
14.09.2017 Deir Ezzor: si avvicina lo scontro tra kurdi, filoamericani, e Assad appoggiato dai russi
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 14 settembre 2017
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «La battaglia di Deir Ezzor»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/09/2017, a pag. I, con il titolo "La battaglia di Deir Ezzor", l'analisi di Daniele Raineri.

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Daniele Raineri

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Soldati siriani di Assad a Deir Ezzor

Nell’est della Siria succede quello che nel 1945 accadde sulle sponde del fiume Elba, in Germania. Agli sgoccioli di una guerra contro un nemico terribile – che allora erano i nazisti, oggi sono i fanatici dello Stato islamico – da una parte avanzano i russi e dall’altra gli americani, anche se questa volta le parti sono invertite e i russi avanzano da ovest e gli americani da est. Come nel 1945, le due parti vittoriose si guardano in cagnesco perché sanno che ci sono conti in sospeso da regolare e che la lotta non è finita, ma non sparano un colpo perché per ora si tratta di una spartizione concordata del campo di battaglia. Cosa succederà da adesso in poi, tuttavia, è da vedersi. Per prima cosa cominciamo con il descrivere il terreno di gioco, che è la valle del fiume Eufrate, in arabo al Furat: parte dal confine turco a nord e taglia tutto l’est della Siria fino a toccare il confine dell’Iraq molto più a sud. Le sponde del fiume formano un corridoio verde in mezzo al deserto ben visibile sulle mappe satellitari, sfruttato molto dallo Stato islamico per spostarsi dalla Siria all’Iraq e viceversa – e non s’intende usato soltanto adesso, ma fin dall’anno 2003 quando migliaia di fanatici attraversavano il confine, andavano a fare la guerra in Iraq contro i soldati americani a Falluja, Ramadi e Baghdad e poi tornavano indietro, al di qua del confine siriano, dove gli americani non potevano colpire (si lamentavano molto ma quasi nulla di più). A questo corridoio i giornalisti non hanno accesso, per ora si riesce ad arrivare fino all’estremità superiore ma non si può scendere perché è troppo rischioso. Così, complice anche il blando disinteresse dei media, la zona è un buco nero e le notizie quasi non escono, anche se ogni giorno ci sono combattimenti furiosi a terra e i jet russi e americani bombardano e uccidono decine di persone per volta. Andando da nord a sud s’incontrano quattro città che contano in questo corridoio dell’Eufrate. La prima è Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico, ormai assediata da tutti i lati dalle forze curdo-arabe che combattono sotto il nome di Forze siriane democratiche (sono conosciute con la sigla in inglese: SDF) e sono appoggiate dagli americani. La seconda città è Deir Ezzor, dove fino a una settimana fa le parti erano invertite: lo Stato islamico assediava circa novantamila persone chiuse da tutti i lati. Era una situazione infernale, gli estremisti erano anche riusciti a tagliare in due l’enclave e minacciavano di massacrare gli assediati, che riuscivano a sopravvivere soltanto grazie ai lanci aerei di viveri da parte delle Nazioni Unite e di rifornimenti militari da parte del governo siriano. La battaglia per Palmyra, molto più seguita perché c’era l’incantamento dei tesori d’arte, in confronto è stata una bazzecola. Nella zona di Deir Ezzor c’è il grosso dei pozzi petroliferi siriani, che erano sfruttati alla grande dallo Stato islamico ma ormai non lo sono più perché gli aerei americani hanno fatto saltare le raffinerie artigianali e i camion del contrabbando. Poco sotto c’è al Mayadeen, che è diventata la nuova capitale dello Stato islamico, anche se a questo punto ha poco senso parlare di “capitali”: più semplicemente, i capi del gruppo estremista si sono trasferiti lì e anche il settore media (che lancia verso il mondo l’incessante messaggio: siamo ancora qui, non ci avete ancora battuto) si nasconde nei paraggi. Infine, al confine con l’Iraq c’è la città di Abu Kamal, gemellata a una città irachena oltre confine che si chiama al Qaim: entrambe sono sotto il controllo dello Stato islamico. Come si sarà capito, è qui che i guerriglieri di Abu Bakr al Baghdadi combatteranno la loro ultima battaglia se non decideranno che a quel punto sarà più saggio – dal punto di vista tattico – dissolversi per risparmiare le energie e riapparire sotto forma di terrorismo urbano, come già fecero nel 2010 quando furono sconfitti una prima volta. Il valico di Abu Kamal è così importante che quasi tutte le “uccisioni” poi smentite di al Baghdadi sono avvenute lì, proprio perché si pensa che da quella strada debba transitare per forza.

La seconda città è Deir Ezzor, dove fino a una settimana fa le parti erano invertite: lo Stato islamico assediava circa novantamila persone chiuse da tutti i lati. Era una situazione infernale, gli estremisti erano anche riusciti a tagliare in due l’enclave e minacciavano di massacrare gli assediati, che riuscivano a sopravvivere soltanto grazie ai lanci aerei di viveri da parte delle Nazioni Unite e di rifornimenti militari da parte del governo siriano. La battaglia per Palmyra, molto più seguita perché c’era l’incantamento dei tesori d’arte, in confronto è stata una bazzecola. Nella zona di Deir Ezzor c’è il grosso dei pozzi petroliferi siriani, che erano sfruttati alla grande dallo Stato islamico ma ormai non lo sono più perché gli aerei americani hanno fatto saltare le raffinerie artigianali e i camion del contrabbando. Poco sotto c’è al Mayadeen, che è diventata la nuova capitale dello Stato islamico, anche se a questo punto ha poco senso parlare di “capitali”: più semplicemente, i capi del gruppo estremista si sono trasferiti lì e anche il settore media (che lancia verso il mondo l’incessante messaggio: siamo ancora qui, non ci avete ancora battuto) si nasconde nei paraggi. Infine, al confine con l’Iraq c’è la città di Abu Kamal, gemellata a una città irachena oltre confine che si chiama al Qaim: entrambe sono sotto il controllo dello Stato islamico. Come si sarà capito, è qui che i guerriglieri di Abu Bakr al Baghdadi combatteranno la loro ultima battaglia se non decideranno che a quel punto sarà più saggio – dal punto di vista tattico – dissolversi per risparmiare le energie e riapparire sotto forma di terrorismo urbano, come già fecero nel 2010 quando furono sconfitti una prima volta. Il valico di Abu Kamal è così importante che quasi tutte le “uccisioni” poi smentite di al Baghdadi sono avvenute lì, proprio perché si pensa che da quella strada debba transitare per forza.

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Soldati kurdi

E’ significativo che i governi che combattono in Siria pensino già a cosa fare dopo, quando c’è ancora così tanto territorio da strappare allo Stato islamico, ma questo è il Grande Gioco in versione 2017 e bisogna essere in anticipo di almeno una mossa sull’avversario. Insomma, un tavoliere polveroso e dimenticato come l’est della Siria, molto lontano dalla zona costiera e popolosa che gli analisti chiamano “la Siria utile” – perché è dove ci sono gli affari, la gente, la vita – è diventato un luogo strategico: c’è il confine con l’Iraq, ci sono i pozzi di petrolio e ci sono gli ultimi resti del Califfato da affrontare. E’ nel cielo sopra la valle dell’Eufrate che s’incrociano le missioni aeree dei piloti russi e americani, coordinate grazie a una linea telefonica e a un account Gmail di cui entrambe le parti conoscono la password (così non si devono spedire messaggi – sempre a rischio intercettazioni – basta che scrivano in bozza e si possono leggere l’un l’altro). Gli uomini di Baghdadi chiamano questa zona Wilayah al Khair, che vuol dire “provincia della bontà”. A nord confina con la provincia di Raqqa (Wilayah al Raqqa) e dall’altra parte con la Wilayah al Furat (dell’Eufrate).

Ora che l’esercito del presidente siriano Bashar el Assad assieme a due battaglioni di Hezbollah e con la copertura degli aerei russi ha rotto l’assedio di Deir Ezzor e ha inflitto una sconfitta pesante allo Stato islamico, l’est della Siria cambia faccia. In città si sentivano dimenticati da tre anni, ma ora che la strada verso il resto del paese è stata riaperta e il razionamento del cibo è finito, si fanno di nuovo pizza e dolci. Lo Stato islamico controllava anche le colline che s’affacciano sulle piste dell’aeroporto, atterrare era diventato impensabile, i rifornimenti arrivavano tutti con i paracadute. L’assedio andava avanti da tre anni, una sola brigata era rimasta dentro a reggere il peso della battaglia e ci si chiedeva come mai il governo siriano preferisse combattere su altri fronti, visto l’enorme pericolo che incombeva su Deir Ezzor. La rottura dell’accerchiamento è arrivata lo stesso giorno della vittoria della squadra di calcio siriana contro l’Iran durante le qualificazioni per andare ai Mondiali. E’ stata una giornata trionfale. Su Twitter circola il filmato di un soldato siriano che per rappresaglia decapita un uomo dello Stato islamico, come a invertire i ruoli. Il generale druso Issalm Zhreddine, che appartiene alla Guardia repubblicana e comandava gli assediati, ha celebrato la liberazione con una minaccia per i siriani che hanno lasciato il paese come rifugiati: “Il governo vi potrebbe pure perdonare, ma noi non vi perdoneremo e non vi dimenticheremo”. Ora si pone il problema di decidere qual è la prossima guerra. Le forze curdo siriane appoggiate dagli americani sono arrivate ad appena tre chilometri da Deir Ezzor, dopo avere lanciato una campagna verso sud per spazzare via lo Stato islamico a est del fiume Eufrate. Per adesso c’è un accordo di deconfliction, vale a dire che le forze appoggiate dagli americani e quelle appoggiate dai russi devono rispettare una linea senza andare oltre, rappresentata dal fiume Eufrate. Però tutti ricordano che Assad nel giugno 2016 promise che si sarebbe ripreso tutta la Siria e che disse “shibr shibr”, che vuol dire “pollice per pollice”. Come la mettiamo con il fatto che al momento tutta la zona a nord di Deir Ezzor è in mano alle forze curde? Perdipiù i curdi iracheni oltre il confine, molto vicini, il 25 settembre voteranno un referendum per dichiarare l’indipendenza e staccarsi dall’Iraq.

Sarà difficile dire ai curdi siriani che dopo avere affrontato lo Stato islamico – a volte in condizioni disperate: ricordate la resistenza eroica del cantone di Kobane? – e avere subito perdite dolorose ora devono sgombrare il campo come se nulla fosse successo, da bravi, e tornare alla situazione com’era prima della guerra civile, quando il regime spesso non dava i passaporti per rendere loro la vita difficile e ostacolava l’uso della lingua curda. E c’è anche da considerare che in questi anni quei cantoni nel nord-est della Siria sono diventati qualcosa d’altro rispetto a prima, ci sono basi aeree usate dai soldati americani, c’è un esperimento di autogoverno da parte di consigli municipali che sono stati nominati dai locali, embrioni di assenza di regime. Viene in mente la vecchia boutade per spiegare il concetto di entropia e di trasformazione irreversibile, se fai bollire un acquario ottieni una zuppa di pesce ma se fai raffreddare quella zuppa di pesce non riavrai indietro l’acquario. E però, che altro si può pensare che accada alla fine se non che il regime torni a rioccupare quel territorio che un tempo fu suo? Date le premesse, se i curdi non si accordano con il regime di Damasco per un qualche sistema di autonomia federale – che in ogni caso farebbe rizzare i capelli ai turchi, dall’altra parte del confine – allo - ra l’alternativa è un conflitto tra una parte armata dagli americani, le forze curde, e una parte armata dai russi, gli assadisti. Sembra poco probabile, ma non è che scartando gli scenari apocalittici che si riesce a spiegare il medio oriente di questi anni. E c’è da ricordare che a giugno i caccia americani hanno abbattuto un aereo siriano che stava per bombardare i curdi sul fronte meridionale di Raqqa. E gli americani, anche se sono sotto l’Amministrazione Trump che è isolazionista ed è restia a farsi coinvolgere, hanno davvero voglia di abbandonare tutta quella zona, dove le milizie iraniane potrebbero cominciare a spadroneggiare? E’ proprio sulle rive dell’Eufrate che la loro campagna di intelligence per scovare e uccidere i capi dello Stato islamico ha dato i risultati migliori, sin dal maggio 2015, quando la Delta Force sbarcò dagli Osprey (che sono velivoli a metà tra gli aerei e gli elicotteri) in un compound vicino a Deir Ezzor dove si nascondeva il cosiddetto ministro del petrolio dello Stato islamico, il tunisino Abu sayyaf. Ora che Deir Ezzor è di nuovo al sicuro, la regione farà da lungo corridoio tra Damasco, Baghdad e il confine iraniano, questa vittoria di Assad è una chiara vittoria dell’Iran.

Uno scoop di Reuters tre giorni fa annunciava che l’Amministrazione Trump studia come prendere una posizione più dura contro Teheran, ma che per ora non vuole farlo contro le milizie filoiraniane in Siria e in Iraq perché i tempi non sono ancora maturi. Israele è dell’opinione opposta, si è già troppo in ritardo, il contenimento non funziona e lo strapotere iraniano in Siria ogni giorno diventa una minaccia più grande – al punto che una settimana fa i jet israeliani hanno bombardato un sito militare vicino Hama che era frequentato anche da personale iraniano. Ma per ora Mosca e Washington ignorano questo inesorabile scivolare verso una situazione da cui soltanto uno uscirà vincitore e l’altro sarà umiliato. La parola d’ordine adesso è: prima liquidare lo Stato islamico, poi si vedrà. Il problema più grande per gli americani è che non avevano scommesso soltanto sui curdi, avevano scommesso anche su alcuni gruppi di ribelli siriani a sud di Deir Ezzor (i curdi sono ancora molto a nord rispetto alla città). Da due anni due programmi paralleli, uno della Cia e uno del Pentagono, appoggiano fazioni di combattenti antiassadisti che però non sparano un colpo contro le forze assadiste, perché spendono il cento per cento del loro tempo e delle loro risorse – fornite da Washington – in una guerra mordi e fuggi contro lo Stato islamico. Questi gruppetti non hanno le forze per spiantare i combattenti di Baghdadi, quando ci hanno provato è andata molto male, alcuni dei loro sono finiti nei video dei nemici, le teste separate dal corpo e infilzate su picche appuntite, a mo’ di avvertimento per gli altri. Però fanno azione di disturbo, rendono le strade di confine rischiose per i guerriglieri, li sfidano al loro stesso gioco, fanno sabotaggio, e fanno sentire gli abitanti meno abbandonati al loro destino: c’è qualcuno che fa resistenza. Però un paio di mesi fa la base da cui partivano questi gruppi, che era al valico abbandonato di al Tanf, tra Siria e Iraq, è stata tagliata fuori dagli assadisti. Vale a dire che le milizie filoiraniane che combattono per Assad hanno isolato i gruppi ribelli dal contatto con lo Stato islamico, perché come si diceva ormai il dopo conta quanto l’adesso: i ribelli fanno la guerra ai terroristi, ma dopo cosa avrebbero fatto? Sarebbero rimasti in zona, come una spina nel fianco per il regime. Gli americani hanno provato a difendere i “loro” ribelli, hanno bombardato due volte i convogli assadisti in avvicinamento, hanno abbattuto un paio di droni iraniani, ma si sono resi conti che si stava andando verso la guerra aperta.

Così hanno stabilito d’accordo con i russi una linea da non oltrepassare, a circa cinquanta chilometri attorno ad al Tanf, e poi hanno trasferito i ribelli fuori dalla bolla con un ponte aereo, a nord, assieme alle milizie curde e fuori dalla portata del regime. Una soluzione rapida, elegante e tecnologica per uscire dall’impasse e non farsi trascinare in una guerra con Iran e magari con i russi, si potrebbe pensare. Tuttavia, la questione non è ancora risolta, anzi c’è il rischio di una catastrofe se gli americani non prenderanno una decisione in fretta. Come ha spiegato l’analista americano e basato a Beirut Sam Heller, la presenza dei ribelli proteggeva due campi profughi gemelli e di grandi dimensioni, cinquantamila siriani rifiutati dalla Giordania – che teme che tra i rifugiati si nascondano elementi estremisti – e che però non vogliono finire di nuovo sotto il controllo del regime. Per ora aspettano, in condizioni bestiali, ma ora che i ribelli appoggiati da Washington sono stati trasferiti è soltanto questione di tempo prima che arrivino i miliziani. Per ora la faccenda è ignorata dai media, ma è facile supporre che se accadessero violenze in un accampamento da cinquantamila rifugiati diventerebbe un caso, persino in uno scenario orrendo come la guerra civile siriana.

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