Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 13/09/2017, a pag. 9, con il titolo "Salta il summit di Lomé tra Israele e i paesi africani", il commento di Marco Boccitto; con i titoli "Tecnicamente nemici, cioè alleati", "Da Tel Aviv rifornimenti ai jihadisti sunniti", i commenti di Michele Giorgio.
Ecco gli articoli:
Marco Boccitto: "Salta il summit di Lomé tra Israele e i paesi africani"
Il summit tra Israele e alcuni Paesi africani è stato rinviato a causa delle pressioni di alcuni Stati arabi-musulmani sui governi africani perché isolino lo Stato ebraico. E' da decenni il modo in cui funziona la diplomazia dei Paesi arabi, che ha l'obiettivo di evitare la normalizzazione delle relazioni con Israele e teme la pace. Dedichiamo questa riflessione ai trombettieri del " ponti e non muri", perchè questa esortazione non viene mai rivolta a chi attacca le iniziative di pace che coinvolgono Israele?
Ecco il pezzo:
Benjamin Netanyahu in Uganda nel luglio scorso
Il premier israeliano Netanyahu, che in questi giorni sta mettendo a frutto i ribaltoni politici avvenuti in Argentina e Brasile per recuperare terreno in America latina, è costretto a subire uno smacco in Africa, dove Tel Aviv conduce con un piglio che non si vedeva dai tempi di Golda Meir una campagna per migliorare le sue relazioni diplomatiche ed economiche nel continente. Vuoi per le risorse, vuoi per i servizi "a pagamento" che paesi come Ruanda e Uganda hanno già fornito prendendosi i migranti che Israele non vuole più. Vuoi perché ogni voto utile in sede Onu ha il suo peso. La notizia è che il summit israelo-africano, previsto dal 23 al 27 ottobre in Togo, è stato rimandato a data da destinarsi. Un clamoroso autogol anche per il presidente togolese Faure Gnassingbé, alle prese d'altro canto con una contestazione interna senza precedenti. Alla luce della quale suona risibile la motivazione, che arriva da Lomé, di aver preso la decisione - d'accordo con il governo israeliano - per guadagnare tempo, in modo da organizzare l'evento al meglio. In realtà, oltre alle turbolenze politiche interne, hanno giocato un ruolo il boicottaggio del summit lanciato dal Sudafrica, seguito da almeno la metà dei paesi invitati, e le pressioni esercitate sul Togo da parte dei paesi arabi affinché non si legittimino con simili iniziative le politiche oppressive di Israele nei confronti dei palestinesi.
Resta poi il fatto che nella capitale del piccolo paese africano che avrebbe dovuto ospitare il vertice l'opposizione è mobilitata in modo permanente per chiedere le dimissioni di Gnassingbé, divenuto presidente nel 2005 con una vistosa forzatura costituzionale che gli consentì di subentrare al padre, Gnassingbé Eyadèma. Il quale da parte sua era arrivato al potere con un golpe nel lontano 1967. Sono quindi 50 anni che il paese è nelle mani della stessa famiglia. Ieri il parlamento togolese era convocato in sessione straordinaria per discutere delle modifiche costituzionali che dovrebbero impedire al presidente di correre per un ulteriore mandato. Ma quando è stato chiaro che all'ordine del giorno c'era solo la legge di bilancio, l'opposizione è tornata a protestare di fronte all'Assemblea nazionale.
Michele Giorgio: "Tecnicamente nemici, cioè alleati"
I due articoli di oggi di Michele Giorgio disinformano, come al solito, contro Israele. Lo Stato ebraico da sempre - non importa se con governi laburisti o del Likud - è disposto a dialogare con chiunque lo voglia. E' una scelta inevitabile, data la situazione di accerchiamento in cui Israele si trova dalla sua nascita. Questa realtà viene strumentalizzata al massimo grado da Giorgio, che fino a ieri chiudeva entrambi gli occhi sui crimini consumati in Arabia Saudita e li "scopre" soltanto oggi. Il secondo articolo che riprendiamo aggiunge alla disinformazione il patetico quando Giorgio condanna senza appello Israele perché accoglie e cura i siriani (inclusi i terroristi) che raccoglie alla frontiera. Israele, nel mondo mistificato di Giorgio, ha torto comunque, perfino nelle sue azioni umanitarie.
Ecco gli articoli:
Michele Giorgio
In Medio oriente si fanno due tipi di diplomazia. Una alla luce del sole e una dietro le quinte. Nulla di nuovo in effetti ma non è mai stato tanto evidente come in questo momento in cui si apprende di Paesi nemici a parole e alleati negli stessi obiettivi. Il caso di Israele e Arabia saudita fa scuola.
UN PAIO DI GIORNI FA è girata la notizia che l'erede al trono saudita, il potente principe Mohammed bin Salman, avrebbe visitato Israele in segreto per discutere di strategie comuni in Siria e nei confronti del "nemico" Iran. A riferire per primo l'indiscrezione, mai confermata ufficialmente, è stato Simon Aran di Radio Israele. Aran non è andato oltre un non meglio precisato «principe saudita è giunto in Israele» mentre i media arabi hanno chiamato in causa proprio Mohammed bin Salman. Immediata è partita la condanna della visita da parte dei giornali legati al Qatar, pronti ad inserire l'indiscrezione nella crisi lacerante, cominciata tre mesi fa, tra Doha e Riyadh. Dall'Arabia saudita ha replicato il giornale Elaph che ha smentito tutto aggiungendo che, in realtà, è stato un principe qatariota e non saudita a trascorrere due giorni a Tel Aviv.
COMUNQUE ANDATA, la settimana scorsa il premier israeliano Netanyahu non ha certo sottolineato senza motivo che i rapporti attuali con gli Stati arabi «sono i migliori di sempre nella storia di Israele» anche senza la pace con i palestinesi. «Ciò che sta accadendo con loro — ha detto Netanyahu durante una riunione al ministero degli esteri - non è mai avvenuto neppure quando abbiamo firmato accordi. C'è cooperazione in vari modi e a vari livelli, anche se ancora tutto non è palese». Da parte sua Aran ha ricordato che quasi venti anni fa «c'erano rappresentanti arabi in Israele, tra cui l'ambasciatore della Mauritania e rappresentanti del Qatar, della Tunisia, del Marocco e dell'Oman» e che «un diplomatico israeliano era stato inviato a Doha». Ma quella era la «pace di Oslo» in cui israeliani e palestinesi negoziavano un accordo "finale", che non è mai arrivato, mentre oggi il governo più a destra della storia di Israele raccoglie a piene mani consensi da Paesi arabi con i quali tecnicamente sarebbe ancora «in guerra».
IN QUESTO VORTICE in cui i nemici di un tempo ora si scoprono alleati, si sviluppa il rapporto tra il movimento islamico Hamas e il regime egiziano di Abdel Fattah el Sisi. Il Cairo è in guerra con i Fratelli musulmani, denunciati come una «organizzazione terroristica». E «terroristi» per gli egiziani fino a qualche tempo fa erano pure i Fratelli musulmani in Palestina, ossia Hamas, accusato di contribuire alla destabilizzazione del Sinai, mantenendo rapporti «ambigui» con le cellule armate filo-Isis che operano nella penisola. Con una svolta a 180 gradi el Sisi ora intavola trattative con Hamas che, da parte sua, ha spedito al Cairo il suo leader Ismail Haniyeh per continuare il dialogo. Dietro la svolta ci sarebbe la necessità per il Cairo di cooptare Hamas nella «lotta al terrorismo» e di migliorare le condizioni di vita a Gaza. In realtà gli egiziani puntano a scaricare il presidente dell'Anp, Abu Mazen, "ostacolo" al piano per portare al comando il loro uomo, il "reietto" Mohammed Dahlan, con l'appoggio di un Hamas addomesticato.
SEBBENE SI SVOLGA ALLA LUCE del sole invece non riceve sempre la dovuta attenzione la diplomazia russa che pure si sta confermando il perno sul quale ruotano le soluzioni per i focolai di crisi in Medio Oriente. La visita del ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, domenica scorsa a Gedda e il suo viaggio due giorni fa ad Amman - a poche settimane dal precedente tour in Kuwait, Emirati arabi uniti e Qatar — hanno rafforzato ulteriormente la posizione di Mosca nella regione. Lavrov in Arabia saudita ha affrontato il tema delle "zone di sicurezza" in Siria, frutto dell'accordo tra Mosca, Ankara e Teheran sottoscritto a maggio ad Astana, precisando che le aree «non saranno utilizzate per dividere il paese in enclavi». Poi ha sottolineato che la Russia «sostiene attivamente» gli sforzi dell'Arabia Saudita di riunire gruppi siriani di opposizione per rendere «più efficaci i colloqui» con i rappresentanti di Damasco. Da parte sua il ministro degli esteri saudita Adel al Jubeir ha espresso soddisfazione per la posizione russa "neutrale" sullo Yemen. E ieri a Mosca c'era il primo ministro libanese e alleato Usa Saad Hariri.
Michele Giorgio: "Da Tel Aviv rifornimenti ai jihadisti sunniti"
Un ferito siriano è assistito e curato in Israele
“Good Neighbors” ("Buoni vicini”). Si chiama così il programma avviato da Israele dopo l'inizio della guerra in Siria che garantisce assistenza ai jihadisti sunniti schierati contro Damasco e ai civili siriani attraverso le linee armistiziali tra i due paesi, nel Golan occupato. Tuttavia nel corso degli anni questo programma in apparenza solo umanitario - Israele sostiene di aver fornito sino ad oggi assistenza medica a circa 3 mila siriani nel Golan e di aver curato nei suoi ospedali centinaia di bambini feriti o ammalati - è andato ben oltre i rapporti di “buon vicinato” tanto che ora prevede anche l'invio di carburante, generi alimentari e di altri rifornimenti». A scriverlo è il quotidiano americano Washington Post che sottolinea come lo scopo di tutto ciò sia finalizzato a creare una “zona amica”, ossia una “zona cuscinetto” tra Israele e Siria.
Grazie anche all'appoggio israeliano i jihadisti controllano ancora buona parte del lato siriano del confine tra i due paesi e Tel Aviv intende impedire che gli equilibri attuali subiscano mutamenti. Per il Washington Post almeno una dozzina di gruppi armati ha ottenuto un sostegno anche finanziario da Israele che in cambio ha avuto un maggiore accesso a informazioni d'intelligence necessarie per at mare la sua strategia in Siria. In sostanza i cosiddetti «ribelli» siriani riferiscono a Israele dei movimenti dei combattenti del movimento sciita libanese Hezbollah e dei volontari e consiglieri militari provenienti dall'Iran. Non è da escludere che, sempre i «ribelli», forniscano a Tel Aviv informazioni utili per colpire i (presunti) convogli di anni per Hezbollah presi di mira dall'aviazione israeliana dal 2013 in poi e altri obiettivi sul suolo siriano. L'ultimo attacco risale alla scorsa settimana ed ha colpito una struttura militare per la produzione di razzi a Maysaf, nei pressi di Hama. Israele ha bocciato gli accordi di “de-escalation”, finalizzati lo scorso luglio da Mosca e Ankara, che hanno portato ad una tregua parziale in Siria, perché a suo dire favorirebbero i “progetti” di Hezbollah e Iran di stabilire basi a ridosso del Golan.
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