Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 12/09/2017, a pag. 50, con il titolo "Yusuf riscopre Cat" l'intervista di Giuseppe Videtti a Yusuf/Cat Stevens.
Cat Stevens era stato uno dei cantanti inglese tra i più popolari degli anni '70. Poi si convertì all'islam, con dichiarazioni estremamente ideologiche. La sua arte musicale ne soffrì al punto tale da renderlo irriconoscibile nella nuova veste di "Yusuf Islam", il suo nuovo nome musulmano. Dopo 40 anni dice 'basta', ma riconoscere un errore durato così tanto è difficile, per cui dichiara di voler "ripartire dalle origini" senza spiegare i motivi delle sue scelte, tra le quali il nuovo nome. Tornerà il Cat Stevens di un tempo?
Ecco l'intervista:
Giuseppe Videtti
Yusuf/Cat Stevens
SORRIDE, è rilassato, ha voglia di godersi Londra come quando era ragazzo e sognava di diventare un Beatle (ci è andato parecchio vicino) strimpellando la chitarra nella camera dell’appartamento situato sopra al ristorante che suo padre, greco cipriota, gestiva nel quartiere di Soho. Cat Stevens creò un mito, canzoni semplici e contagiose come Wild world e Father and son, poi, alla soglia dei trent’anni, la decisione di cancellarsi dall’album d’oro del pop per seguire un percorso spirituale travagliato e periglioso fin dal nome adottato a partire dal 1977, dopo la conversione: Yusuf Islam.
Da allora, tante polemiche, un impegno assiduo nella comunità, molto tempo dedicato alla famiglia con la quale vive in pianta stabile a Dubai, molto rigore, zero allegria, pochissima musica. Stupisce vederlo sorridere, dopo tante interviste in cui inevitabilmente era l’ortodossia a prevalere («Nell’Islam non c’è spazio per la musica» ) ed era praticamente vietato rivangare il passato da popstar. Ma di più sorprende sapere che il nuovo album The laughing apple, che recupera anche alcuni inediti composti nella seconda metà degli anni Sessanta, è a nome di Yusuf/Cat Stevens (lo pseudonimo con cui Steven Demetre Georgiou è diventato famoso non compariva su un disco inedito dal 1978!). Niente più djellaba, niente più kefiah, Yusuf, 69 anni, è sobriamente vestito all’occidentale quando lo incontriamo nell’hotel londinese di Maida Vale, a due passi dall’Islamic Centre of England. Lo accompagna il primogenito Mohammed (che tempo fa incise un album con il nome di Yoriyos), 32 anni, in jeans e chiodo neri. Si diverte da matti il ragazzo quando gli mostro una foto di Cat scattata a Roma nel 1974 (in cui la somiglianza tra padre è figlio è impressionante), in compagnia di Florinda Bolkan e Helmut Berger. «Sono due attori famosissimi che hanno lavorato con Luchino Visconti», spiega Yusuf distrattamente (non ricorda che quella notte ebbe un epilogo drammatico: all’uscita dal Jackie O’ di via Veneto i paparazzi vennero alle mani con i bodyguard e qualcuno finì all’ospedale). Si accarezza la barba divertito quando gli faccio notare che ci sono voluti quarant’anni perché Cat e Yusuf si stringessero la mano. «È vero, ma Cat Stevens è solo un’etichetta legata a un periodo musicale della mia vita molto prolifico e profondo. È ovvio che anche per Yusuf fosse un punto di riferimento, perché io vivo in armonia con le canzoni che ho scritto», dice mentre sbircia i disegni che faranno parte della scenografia del tour australiano in allestimento.
Le è mai capitato, dopo la conversione, quando sembrava che non ci fosse spazio per la musica nella vita di un buon musulmano, di rinnegare o di provare avversione per quelle canzoni? «A un certo punto presi la decisione di sospendere la mia attività musicale, perché l’ala più conservatrice dell’Islam sosteneva che non fosse compatibile con la mia conversione. A quel punto ero troppo indaffarato con la famiglia e con il mio impegno nella scuola islamica per approfondire la materia. E difatti nelle ultime interviste dell’epoca dissi (lo dissi anche a lei, ricorda?): sospenderò le mie attività di musicista finché non avrò verificato personalmente. Non ho mai detto che non avrei più cantato e suonato, non avrei potuto farlo senza il volere di Dio, semplicemente lasciai la porta aperta».
Ricordo i suoi soggiorni in Turchia, poi in Egitto per apprendere l’arabo e applicarsi nell’interpretazione del Corano. «Era indispensabile, avevo bisogno degli strumenti necessari per prendere una decisione giusta ed equilibrata, non potevo continuare a chiedere a questo o a quell’imam. La maggior parte di loro fa affidamento sulla leadership, ignorando che l’Islam ha dato un contributo fondamentale alle civiltà attraverso i secoli, e non solo perché le prime industrie dello zucchero nacquero in Marocco, ma anche in fisica e matematica e astrologia. E in musica: l’oud, il liuto, arrivò da Baghdad in Andalusia, poi dalla Spagna in Austria, e da lì fino alla corte inglese; anche gli antichi greci avevano la chitarra. La civilizzazione non è né islamica né cattolica, né occidentale né orientale, appartiene all’umanità. Il mondo islamico ha la sua solennità e il suo rigore, c’è voluto del tempo per separare le opinioni dai fatti».
Anche la presunzione della cultura occidentale ha causato molti dei mali di cui stiamo soffrendo. «L’esclusione delle altre culture genera inevitabilmente problemi. Mi piace ricordare che le civiltà cristiana e islamica a un certo punto si sono incontrate generando meraviglie: pensi agli ottomani, Haghia Sophia e le architetture di Sinan a Istanbul».
Oggi possiamo dire che mettere il nome Islam accanto a quello di Yusuf fu una decisione che col tempo, anche a causa degli accadimenti che hanno fatto seguito all’11 settembre, è diventata imbarazzante? «C’è un fondo di verità in quel che dice. Quando all’epoca abbracciai l’Islam, cercai di farlo nella maniera più totale e rigorosa possibile. I miei principi, da cristiano come da musulmano, hanno sempre avuto la pace come priorità. È vero, forse non ho fatto abbastanza all’epoca per chiarire i malintesi, forse non ho alzato sufficientemente la voce, ma non è quello il mio lavoro, sono un essere umano non un politico né un leader religioso».
L’album è una riflessione sugli esordi, uno sguardo molto tenero all’entusiasmo dell’artista in erba. Alcune dei brani sono stati scritti quando lei non aveva ancora vent’anni e non era ancora un idolo del pop. «Sono canzoni che riflettono lo spirito degli anni Sessanta, un periodo meraviglioso in cui tutto poteva succedere, nascere, evolversi, un periodo di grandi novità e di grandi cambiamenti. Il mio sound era piuttosto unico e lo amo ancora, al punto che è riemerso prepotentemente quando ho cominciato a pensare a questo disco. Alcuni brani, come Northern wind (Death of Billy the Kid), con il loro anelito pacifista, sono tremendamente attuali. Nel periodo successivo alla conversione tutto questo era rimasto nell’ombra, volevo provare altre cose, suoni più consoni alla mia spiritualità. Questa volta ripercorrere le vecchie strade è stato naturale e irrinunciabile. The laughing apple è una sorta di prequel di quell’inno all’ottimismo che fu Moonshadow ».
Grazie anche alle sue illustrazioni, sembra un libro o un album di canzoni per bambini. Le dolci ali della giovinezza? «Sì, e più si diventa vecchi più sembrano dolci; il contrario di quel periodo postadolescenziale in cui smaniavo per crescere e diventare adulto. Sono ricordi indelebili: ieri ho tenuto uno showcase nel locale dove mio padre gestiva un ristorante (ora è una galleria d’arte) — ho vissuto al piano di sopra per ventun anni, lì è nata la maggior parte delle mie canzoni » .
È nonno di otto nipotini, le è capitato di cantar loro queste canzoni? «Per forza, perché ormai ho un piccolo fan club in famiglia. S’impara sempre tanto osservando i bambini. Tutti avremmo da apprendere guardando i bambini giocare, anche i nostri governanti. È in quel momento che s’impara a vivere insieme, i meccanismi sono già tutti lì».
“Mighty peace”, la prima canzone che scrisse a quindici anni e rimasta nel cassetto, è quella che riunisce il percorso spirituale di Cat e Yusuf. Il messaggio sembra essere: non c’è bisogno di cambiar nome o religione per essere una persona migliore. «Sacrosanto! La verità non ha colori, non ha pregiudizi, non ha nazionalità. Di fronte alla verità le esigenze individuali perdono d’importanza. Per questo è fondamentale rispettare la legge, come riusciremmo diversamente a mettere d’accordo due persone che litigano?».
“You can do (Whatever)” fu scritta per la colonna sonora del film “Harold e Maude”, ma poi restò incompiuta. Ora la canta con l’aggiunta di qualche nuova strofa (Quando i soldati cominciano a marciare/ Puoi ascoltare quel che dicono/ O puoi urlare). «La scrissi in Giamaica, a casa del produttore Chris Blackwell. Il regista Hal Ashby era innamorato delle mie canzoni, mi diceva: non devi vergognartene perché sono semplici, è questa la loro forza. In effetti, la mia filosofia di vita è esattamente quella descritta da questa canzone (la canticchia, ndr). Le nuove parole mi sono venute quando l’ho rispolverata per la colonna sonora del film su Steve Jobs. La prima canzone che Jobs ha salvato in mp3 (me l’ha detto uno degli inventori del formato) è stata Father and son, mi ha lusingato saperlo».
Non ha mai pensato di scrivere un’autobiografia per raccontare tutto e far luce su quello che i vecchi fan considerano il suo periodo buio? «Ci lavoro da anni. Ne ho già pubblicata una per spiegare al mondo islamico perché sono tornato a fare musica, si chiama Why I still carry a guitar ( My spiritual journey from Cat Stevens to Yusuf Islam) ».
Ha condannato il terrorismo e da sempre è molto sensibile al problema dei rifugiati. Qual è oggi la sua più grande paura? «La stampa. Il mondo dell’informazione è così deprimente! Dovrebbe essere uno strumento al servizio della verità, dovrebbe… La libertà di stampa è sacrosanta come la libertà d’espressione, purché non si mistifichi o distorca la realtà. Che è quel che regolarmente accade».
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