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La Stampa Rassegna Stampa
28.08.2017 Tel Aviv, la città delle start-up
Analisi di Filippo Femia

Testata: La Stampa
Data: 28 agosto 2017
Pagina: 11
Autore: Filippo Femia
Titolo: «Tel Aviv e il fallimento: 'Qui anche i flop fanno curriculum'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/08/2017, a pag. 11, con il titolo "Tel Aviv e il fallimento: 'Qui anche i flop fanno curriculum' ", l'analisi di Filippo Femia.

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Filippo Femia

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Tel Aviv

E se il segreto del successo fosse fallire? Se un business catastrofico diventasse un caso da studiare? Dietro app e progetti geniali si nascondo inciampi, più o meno grandi, che possono insegnare molto a chi scommette su nuove start-up. La lezione arriva da Tel Aviv, paradiso hi-tech sul Mediterraneo.

Tra Rothschid boulevard e gli altri viali a pochi passi dal mare batte il cuore dell’innovazione. Fuori dalle sedi delle multinazionali e dei 90 acceleratori di start-up. Nei dehors dei bar, incastonati tra case in stile Bauhaus e moderni grattacieli, alcuni giovani scrutano lo schermo di un Mac. Stanno discutendo un nuovo progetto da lanciare. «In nessun’altra città al mondo c’è un fermento simile», spiega Margaux Stelman, del municipio di Tel Aviv. Qui c’è il record di start-up per abitante: una ogni 290, 2.800 in tutta la città, più che nella Silicon Valley. E i fallimenti non si nascondono, li si «celebra» in eventi particolari.

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Si tratta delle «Fuckup Nights» (eufemismo per andare in malora), un format nato a Città del Messico nel 2012. Cinque amici, davanti a una bottiglia di mezcal, borbottavano sfogandosi dei loro flop: «Se organizzassimo un evento dove raccontiamo i nostri fiaschi? Sarebbe più originale delle noiosissime conferenze in cui i guru insegnano la ricetta del successo». Quella sera è nata l’idea esportata in oltre 200 città di tutto il mondo. Ma è qui a Tel Aviv che è diventata un appuntamento cult: ogni mese un paio di serate fanno il sold out. In sette minuti imprenditori e startuppari di successo raccontano le esperienze finite male, rispondendo alle domande del pubblico.

«A volte è più utile di una seduta dallo psicologo», assicura Adam Rakib, 28 anni, speaker di una serata. È un giovane imprenditore che nel 2012, con altri soci, ha realizzato una piattaforma per videogame in realtà virtuale. Dopo un anno è stata venduta a una multinazionale per 12 milioni di dollari. «Ma non è stata tutta in discesa, anzi. Prima di avere successo ho sbattuto la testa più volte», racconta. L’apologia del fallimento nelle «Fuckup Nights» recita più o meno così: sbagliare non impedisce di avere successo. Anzi: fallire è necessario. «Non farlo è impossibile: è una questione statistica. Più ti sbatti, più lo scivolone è dietro l’angolo», spiega Roy Povarchik, 31 anni, fondatore di un’acceleratore per start-up. «Dei big come Steve Jobs si ricordano solo i trionfi. Ma non hanno azzeccato ogni colpo in tutta la carriera: anche loro hanno commesso errori grossolani. A volte anche per anni».

Può essere una leggerezza nel business plan, la scelta sbagliata di un socio o innamorarsi di un’idea senza scorgerne i limiti. O non cautelarsi da persone senza scrupoli, come è accaduto alla 28enne Sharonna Karni Cohen. Nel 2014 ha creato «Dreame», un portale in cui si commissionano disegni, scegliendo tra 500 artisti in tutto il mondo, da ricreare su qualsiasi supporto (t-shirt, cuscini, tazze). Un’amica russa a cui aveva raccontato il progetto le ha rubato l’idea. «Ero furiosa, ma non potevo che prendermela con me stessa. Ho raccontato la mia esperienza durante una “Fuckup Night” e le ho mandato una mail in diretta con solo tre parole: “Grazie dell’insegnamento”. È stato catartico». Oggi la sua creatura è valutata tre milioni di dollari e ne fattura 25 mila al mese. «Da quella sera ho imparato molto», spiega. «In Israele le esperienze senza lieto fine a volte vengono inserite nel curriculum: non c’è nulla di cui vergognarsi». È il diritto di fallire. Il trampolino verso il successo.

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