Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/08/2017, a pag.20 il pezzo di Gigi Riva, a pag.33 quello di Alberto Stabile.
REPUBBLICA si riconferma oggi il quotidiano più inattendibile per quanto riguarda il Medio Oriente e Israele, il più disinformante perchè viene considerato non schierato. In altra pagina il commento di Federico Rampini, altro esempio di giornalismo che andrebbe catalogato fra le opinioni, mentre invece Rampini avvelena con le sue valutazioni quella che dovrebbe essere una cronaca.
Qui riprendiamo Gigi Riva e Alberto Stabile, due degni eredi di Igor Man, che dal maestro di fanatismo anti-Israele hanno fatto la loro bandiera.
Gigi Riva: "Intanto Israele costruisce il muro sotterraneo"
Gigi Riva
Il pezzo di Riva è una difesa di Hamas, per rivelarne la scorrettezza, dovremmo fare un elenco di tutte le parole che usa, occupando uno spazio lungo due volte l'articolo. Confidiamo nella intelligenza dei lettori, anche se li obblighiamo a confrontarsi con una impresa non piacevole, ma è utile, per capire come Repubblica non abbia più alcuna credibilità quando rifila ai propri lettori articoli come questo di Gigi Riva.
NELLA LORO PUR LUNGA STORIA, gli umani non avevano mai realizzato un’opera simile. Ora la tecnologia coniugata alla volontà permette di immaginare la costruzione di un muro sotterraneo di cemento armato lungo 64 chilometri, profondo alcune decine metri (pare 40 ma la misura esatta è top secret) e alto sei metri sopra il suolo, più una propaggine marina su una base flottante, per un costo previsto di 800 milioni di euro. Israele lo erigerà per sigillare ancor più Gaza. Si apriranno 40 cantieri (sei già in funzione), vi lavoreranno, 24 ore al giorno escluso il sabato perché sia ultimato entro la metà del 2019, mille operai: oltre a manodopera israeliana anche proveniente da Spagna, Moldavia e Paesi africani. Se ne vociferava da tempo, l’ufficialità e i dettagli tecnici sono stati resi noti nei giorni scorsi dal governo Netanyahu. Nella Striscia, controllata dal 2007 da Hamas, l’organizzazione islamista riconosciuta il 27 luglio come terrorista dalla Corte di Giustizia europea dopo che era stata tolta dall’elenco tre anni fa, vivono 1 milione e 800mila palestinesi. Le possibilità di lasciarla per i suoi abitanti sono praticamente nulle. Israele controlla il lato nord ed est dei confini, a sud c’è la frontiera poco permeabile con l’Egitto, a ovest il mare. Una barriera dotata di sensori elettronici esiste già. I soldati di Tsahal, l’esercito, controllano ogni metro di frontiera dai monitor di sofisticati computer con visione notturna. Per neutralizzare ordigni volanti i sistemi di difesa sono tre: l’Iron Dome contro razzi, proiettili di artiglieria e missili a corto raggio; Arrow-3 per i missili balistici a lungo raggio; “Fionda di David”, ultimo arrivato nell’aprile scorso, per i missili a medio raggio. Nonostante questo, un razzo partito da Gaza il 9 agosto scorso è caduto nell’area di Ashklelon, senza provocare danni. Per attaccare Israele, ad Hamas non restava che il sottosuolo. Fu nel 2013 che i militari scoprirono l’esistenza di tre tunnel scavati a meno 18 metri, lunghi 1,7 chilometri, per 200 metri già penetrati oltre il confine. Le talpe avevano già quasi completamente scavato il corridoio di risalita ed erano arrivate a due metri dal suolo. Tanto che i generali erano stati facili profeti: «La prossima guerra sarà per i tunnel». E guerra fu, infatti, nell’estate del 2014 (2.000 morti palestinesi contro 67 militari e 6 civili israeliani), per scongiurare un incubo: si temeva che commando di terroristi potessero infiltrarsi e catturare ostaggi nelle cittadine israeliane prossime alla Striscia. Nel febbraio scorso il Controllore dello Stato Yossef Shapira ha pubblicato il rapporto su quel conflitto e accusato il governo Netanyahu di aver sottovalutato la minaccia rappresentata dalla rete sotterranea e aver tralasciato la via diplomatica che avrebbe forse potuto evitare la guerra. Allora furono distrutti i tunnel (34 in totale di cui 14 che portavano verso Israele), non l’idea di scavarne di nuovi come sola risorsa per offendere. Il Mossad sostiene di avere le prove di nuove gallerie in fase di ultimazione (almeno due), da qui l’urgenza di accelerare il progetto del muro sotterraneo. Per il quale sono stati interpellati esperti di tutto il mondo prima di giungere alla stesura definitiva che prevede anche un sistema di controllo elettronico nel caso si cerchi di perforarlo. Per garantire l’incolumità dei lavoratori, il manufatto sorgerà alcune centinaia di metri dentro Israele come ha spiegato il ministro per le costruzioni Yoav Galant. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale Yaakov Amidror ha giustificato i costi con «la necessità di salvare vite umane» e ha aggiunto: «Sarà la sola barriera sotterranea esistente al mondo». Mentre il comandante della regione sud Eyad Zamir considera la possibilità che si alzi la tensione: «Ma se Hamas vorrà scatenare una guerra per il muro, per noi sarà una buona ragione per combattere». Hamas replica per voce del suo viceministro degli Esteri Ghazi Hamad: «Non fermeranno la nostra voglia di batterci contro l’occupazione e di riaffermare il diritto a difenderci, coi missili e coi tunnel».
Alberto Stabile: "Netanyahu e Abu Mazen il comune destino verso il tramonto"
Alberto Stabile
A differenza del pezzo di Gigi Riva, che avrebbe dovuto essere una cronaca, quello di Stabile è una opinione. Ciò detto, l'operazione è quella tradizionale, Netanyahu è uguale a Abu Mazen, arrivando a scrivere che il capo dell'AP, non dimettendosi, fa mancare il 'ricambio democratico', ma guarda, l'Olp democratico! Traccia una biografia di Bibi accusandolo di essere l'erede di leader terroristi, arrivando a definire il ministro Avigdor Lieberman 'ex giovane buttafuori di locali notturni moldavi'. E allora? Se anche fosse vero si guadagnava da vivere lavorando, ma Stabile deve sporcare -secondo lui- l'immagine di un politico che non gli va a genio. Un ricordo tutto da verificare su Arafat e Mohammed Dahlan, l'unico che nell'Olp aveva tentato di differenziarsi dai seguaci del terrore, a Stabile non va giù, quindi veleno anche su di lui (senza essersi informato sulle sue posizioni attuali). Insomma 'disinformatzia' a tutto volume.
Per diversi ed opposti motivi i capi supremi del più antico conflitto che la storia contemporanea ricordi, quello tra israeliani e palestinesi, Benjamin Netanyahu, detto Bibi, e Mahmud Abbas, nome de guerre Abu Mazen, sembrano giunti simultaneamente al tramonto delle rispettive carriere politiche che li hanno visti per quasi due lustri confrontarsi proclamando a gran voce la loro volontà di pace, salvo tornare ogni volta a rifugiarsi nel confortante abito del nemico mortale. Per questo non saranno rimpianti. Certo, le figure dei due leader, che ieri hanno incontrato separatamente Jared Kushner, il genero di Trump, sono profondamente diverse per età, storia personale, retroterra politico e culturale. E non bisogna dimenticare che, al di là della sua requisitoria sul “golpe” ordito dalla sinistra e dai media infedeli contro di lui e la sua famiglia per rimuovere l’unico ostacolo efficace alla creazione dello stato palestinese, Netanyahu è il premier di un governo eletto da un sistema politico che non corre alcun pericolo di tenuta democratica, come dimostra il facile e ricorrente ricorso alle elezioni anticipate, mentre Abbas è il presidente scaduto da nove anni di un’Autorità Palestinese che si sta lentamente suicidando a causa della corruzione imperante e per la mancanza di ricambio democratico. Eppure, c’è qualcosa che lega i destini dei due protagonisti. Essi sono forzati a coesistere nell’immobilismo, uniti dallo stato di necessità di evitare la rottura definitiva e fatale, obbligati a rimanere aggrappati alle rispettive poltrone perché le alternative che si presenterebbero e probabilmente si presenteranno sono cariche di rischi. Se c’è stato un momento di sincerità nella accesa auto-difesa di Netanyahu davanti ai suoi sostenitori, è stato quando ha paragonato le sue sorti a quelle di Yitzak Shamir, lo storico leader conservatore, già capo del gruppo terrorista Banda Stern, che nel 1992 venne costretto a dimettersi dalla carica di Primo ministro, lasciando campo libero a Rabin e agli accordi di Oslo. In effetti la sconfinata ammirazione di Bibi per Shamir, ben manifesta sin dai tempi della Conferenza di Madrid dei primi mesi del 1992, dove era portavoce della delegazione israeliana, lo ha portato a mutuarne il tatticismo esasperato nelle trattative, la doppiezza che spinge a decisioni apparentemente coraggiose ma immediatamente revocate, l’attendismo rivelatore delle reali intenzioni. Così era lo Shamir della Conferenza di Madrid, sortita dai nuovi equilibri creati dalla Prima Guerra del Golfo. Così è il Netanyahu di quest’ultimo decennio nel corso del quale, con il contributo determinante del primo ministro israeliano, impegnato in un estenuante scontro personale contro Barack Obama, scontro ispirato e condiviso dall’estrema destra nazionalista e religiosa, s’è visto il processo di pace scivolare in uno stato di coma profondo e forse irrevocabile. Parallelamente, Abu Mazen, è rimasto prigioniero di se stesso, invischiato nelle sue insicurezze senza riuscire a districarsene. Spinto al vertice dell’Autorità Palestinese, tra il 2003 e il 2004, dalle pressioni insensate di George W. Bush e di Ariel Sharon, intenzionati a liberarsi una volta e per tutte anche del fantasma di Arafat, Mahmud Abbas incarna adesso la tragica, paradossale, maschera di un presidente che ha perso una gran parte del suo popolo e del suo territorio — parliamo della Striscia di Gaza dove dimorano oltre due milioni di palestinesi per lo più figli e nipoti di rifugiati — in una guerra civile veloce e violenta combattuta nella primavera- estate del 2007; un presidente il cui consenso non è più commensurabile secondo il criterio del voto, ma finge che non sia successo niente, perché così vogliono i Grandi della Terra che ne lodano la “moderazione” come antidoto all’intransigenza del Movimento di resistenza islamica, Hamas, e preferiscono ignorare che, legalmente, Abu Mazen non rappresenta più nessuno. Entrambi sono assediati da predatori che fiutano l’imminente decomposizione. Netanyahu ha un perenne debito di riconoscenza nei confronti di Avigdor Lieberman, l’ex giovane buttafuori di locali notturni moldavi, assurto al ruolo di ministro della Difesa, in Israele la più importante carica ministeriale dopo il premier, il quale ha avuto la furbizia di affiancare Bibi senza fargli ombra quando gli faceva da segretario, durante il primo mandato da premier, a metà degli anni 90, e adesso sembra pronto al grande salto. E persino a destra di Lieberman, fra i seguaci del nazionalismo messianico, come il ministro dell’Educazione Naftali Bennet, c’è chi scalpita. Per cui al povero Netanyahu non resta che proporsi come garante della continuità nel nulla, perché dopo di lui...chissà. Mentre Mahmud Abbas, ormai sulla soglia degli 83, costretto a controlli cardiaci frequenti, deve subire l’affronto di vedere Hamas, intavolare negoziati con l’Egitto del generale al Sisi, per sfuggire alla stretta economica che lo stesso Abu Mazen ha (tardivamente) deciso di infliggere al governo di fatto che il movimento integralista esercita da dieci anni su Gaza, salvo costringere Ramallah a pagare gli stipendi per i quarantamila dipendenti pubblici e le elevate bollette energetiche. Da ultimo, abilmente, come è sua natura, nel negoziato tra Egitto, Hamas e Autorità Palestinese s’è inserito un avversario molto insidioso di Abu Mazen, quel Mohammed Dahlan (Abu Fadi), ex capo di al Fatah e dei servizi di sicurezza palestinesi nella Striscia, che per lunghi anni è stato il “cavallo di razza” su cui le cancellerie occidentali (e Israele, pur senza troppo entusiasmo) puntarono come successore di Arafat. In realtà, Arafat lo temeva, al punto che lo volle con sé sull’elicottero che lo portava ad Amman, in direzione di Parigi, quando, nel novembre del 2004, Arafat dovette essere ricoverato prima di morire. «Fate posto ad Abu Fadi — ordinò il leader palestinese — perché se resta a Ramallah chissà che guai combina ». Nel 2007, i miliziani di Hamas, accecati dall’odio gli rasero al suolo la sontuosa villa. Mahmud al Zahar, uno dei capi integralisti giustificò la distruzione definendo Dahlan, «un ladro di polli». Abu Mazen non lo ha riabilitato. Al contrario, lo ha espulso dal gruppo dirigente dell’Olp e lui, Dahlan, ha continuato a fare la spola tra il Cairo e il Golfo dove vanta amici e protettori. Ora è saltato di nuovo fuori come “mediatore”. Hamas ha dimenticato gli antichi insulti. Un pessimo segnale per Abu Mazen.
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