Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/08/2017, a pag.24 con il titolo "Theodor Herzl, il sogno diventato realtà" la rievocazione storica di Lea Luzzati del Primo Congresso Sionista di Basilea del 1897.
«Se lo volete non sarà un sogno» è la frase che ne disegna la storia: una proposizione ipotetica che in principio aveva tutti i connotati dell’utopia assurda, ma che a poco a poco prese corpo, sostanza, realtà. «Se lo volete non sarà un sogno», disse Theodor Herzl in occasione del Primo Congresso Sionista, 120 anni fa, nella quieta Basilea, e lo ripeté sino alla fine della sua breve vita. Nato a Budapest in una famiglia ebraica assimilata e profondamente acculturata, il fondatore del movimento risorgimentale ebraico si ritrovò giovane corrispondente per la Neue Freie Presse a Parigi, nella tempesta dell’infame processo Dreyfus che, se condannò il povero e fedele ufficiale francese all’esilio, regalò invece a lui una disincantata folgorazione: l’antisemitismo è inguaribile e si radica anche nelle società evolute, a dispetto dei Lumi e dei diritti civili quasi universalmente riconosciuti.
Per gli ebrei l’unica soluzione di sopravvivenza e dignità è la conquista di una «completezza» nazionale e di una autonomia politica. Il ritorno a una patria. I figli d’Israele dovevano diventare «un popolo come gli altri», riavere tutto ciò che definisce una nazione: terra, bandiera, autodeterminazione. A questo obiettivo Herzl dedicò il resto della propria vita - ma morì a soli 44 anni, nel 1904, senza fare in tempo a vedere nella Shoah la più drammatica conferma del suo pessimismo e nella nascita dello Stato d’Israele, dove dal 1950 riposano le sue spoglie, la realizzazione di quello che non rimase un sogno. Tempi di pogrom Cento e venti anni fa a Basilea il movimento sionista si riunì con l’obiettivo di dare una autonomia politica e civile al popolo ebraico disperso ai quattro angoli del mondo e vittima in quegli anni di sfoghi di violenza e persecuzioni: i pogrom che imperversavano nell’impero zarista mietevano vittime e costringevano alla fuga migliaia di anime. Come bene esempla il titolo del libro di Herzl che teorizza seppure in forma narrativa la nascita del futuro Stato - Altneuland, «nuova vecchia terra» - il sionismo guardava al passato remoto, tornava alle radici bibliche della storia, a quando gli israeliti avevano un regno sulla propria terra. Ma per contro aveva come obiettivo quello di forgiare un ebreo nuovo, non più disposto a chinare la testa passivamente davanti alla catena di avversità, odio e disprezzo che avevano segnato gli ultimi duemila anni. Un ebreo nuovo capace di riprendere - in primo luogo fisicamente con il lavoro manuale - il contatto con la terra. E in fondo tutta la storia del sionismo, che prende il nome da una collina di Gerusalemme, Sion, evocata con nostalgia dagli esuli della prima Diaspora deportati in Babilonia, è un cammino sul filo in equilibrio tra passato e futuro. Da Theodor Herzl, che aveva nel Risorgimento italiano il suo primo e fondamentale modello politico, a David Ben Gurion, padre della patria che sempre propugnò il cammino verso Sud, verso il deserto del Negev dove secondo lui stavano il futuro del popolo e le risorse materiali e mentali per edificare la storia, tutta l’epopea del sionismo è segnata sia da un richiamo alle radici lontane sia dalla ricerca di un futuro libero, aperto. Il Primo Congresso Sionista, tenutosi a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897, avvia un processo interno ebraico: si creano organizzazioni, si definiscono i lineamenti di una educazione alla rinascita nazionale. Theodor Herzl e gli altri esponenti del movimento si dedicano a una fervida attività politica e diplomatica in cerca di un focolare nazionale per i figli d’Israele. Il sionismo è dunque un insieme di iniziative politiche, culturali ed economiche volte alla rinascita nazionale per il popolo ebraico. È anche e forse soprattutto un insieme di ideali intrinseco all’ebraismo, cui la modernità può dar voce. Nulla di artificiale, anzi: è l’autentico spirito dell’ebraismo che si confronta con la storia.
La scheda di partcipazione dei delegati a Basilea
Lo Stato d’Israele Cinquant’anni esatti dopo il Primo Congresso Sionista, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvano a maggioranza una risoluzione che prevede la creazione di due Stati «palestinesi»: uno ebraico e uno arabo. Nella Palestina sotto mandato britannico c’era infatti da generazioni una società ebraica strutturata, attiva, consapevole: uno Stato di fatto, dotato di istituzioni politiche, sistema educativo, servizi. Nel maggio del 1948 nasce lo Stato d’Israele. Da allora esso vive il conflitto. Ma ancora una volta, al di là delle questione politiche e fermo restando il diritto dei palestinesi arabi a un’autonomia nazionale, la storia ebraica si è caricata del solito «sovratesto» distorto per colpa del quale «sionismo» è diventato una parolaccia, la definizione di un’ideologia del male, sinonimo di razzismo, come è detto nella risoluzione Onu 3379 del novembre 1975. Un ideale ancora vivo Se è vero che dal 1897 in poi, e anche prima, il movimento sionista ha conosciuto diverse espressioni, lo è altrettanto l’evidenza che col razzismo non c’entra per nulla. Da Martin Buber a Zeev Jabotinsky, da Rav Kook a Abraham Yehoshua - e con loro tantissimi intellettuali e uomini di politica - in tutte queste voci il sionismo si configura come un ideale di «normalizzazione» ebraica capace di conservare quel portato umanistico che si trova espresso nella Bibbia e in tutta la tradizione d’Israele. Lo Stato ebraico esiste da quasi 70 anni, è una realtà costruita su un ideale. Eppure, malgrado abbia raggiunto il suo scopo, l’ideale sionista è ancora vivo. Non solo nel guidare le recenti immigrazioni di ebrei (dalla Russia, dalla Francia, dall’India), non solo nella memoria di quei fondatori sparsi per il Paese (come ad esempio il nucleo italiano di molti kibbutzim storici, da Netzer Sereni a Ruchama), ma anche nel suo essere la più autentica declinazione dell’ebraismo contemporaneo. Nel quotidiano confronto, non sempre liscio ma sempre costruttivo, tra Diaspora e realtà nazionale israeliana. Nel paradosso che fa oggi di questo paese dalle radici ancestrali in cui si parla la stessa lingua dei Profeti e dei Patriarchi la «start-up nation» proiettata verso le più avveniristiche tecnologie. Nel suo essere parte dello scacchiere politico e culturale del presente, con le sue energie intellettuali, con la sua spinta di vita.
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