Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 07/08/2017, a pag.31, con il titolo " Lo scandalo del testimone che nessuno vuole ascoltare" la recensione di Susanna Nirenstein al libro di Daniel Arsand "lo sono vivo e tu non mi senti (traduzione di Sara Prencipe, Codice edizioni, pagg. 266, euro 19 "
Susanna Nirenstein
Daniel Arsand
Il ritmo spezzato, incalzante, la voce narrante un urlo contro il silenzio. Forse l'unico modo per dare la parola a un sopravvissuto del lager di Buchenwald che per tutta la vita ha trovato enormi ostacoli alla sua testimonianza, catturato, detenuto, torturato, abusato dai nazisti per la sua omosessualità - una persecuzione che di fatto uccise circa 7.000 tedeschi tra i 15.000 internati e i 50.000 mandati in giudizio, anche se i numeri rimangono ancora oggi volatili -, doppiamente perseguitato perché all'uscita dal campo di concentramento continuava a portare su di sé il carico schiacciante di una verità che nessuno voleva udire. E se tutti i sopravvissuti hanno sofferto l'impossibilità di essere ascoltati ( persino agli ebrei tra gli ebrei all'inizio è stato di fatto negato - troppo duro, inaudito, umiliante quello c'era da capire ed elaborare: ci volle il processo a Eichmann per dare un primo contenitore gridato alla Shoah ), non ci fu davvero nessuno ad accogliere la pena degli omosessuali scampati, perché la società per molti anni ancora continuò a non accettare questa diversità.
Non a caso il romanzo di Daniel Arsand - il più intimo, il più combattente per lui che, sempre prendendo spunto dalle componenti della sua identità, ha spesso ripercorso le vie perigliose degli armeni - si intitola lo sono vivo e tu non mi senti (traduzione di Sara Prencipe, Codice edizioni, pagg. 266, euro 19 ).
La scena si apre nel novembre 1945 tra i cumuli di detriti di Lipsia ("un inferno ormai immobile" ). Vi si aggira, "sfinito", il 23enne Klaus Hirschkuh: lo guardano tutti, la sua magrezza è abbagliante. Cerca l'odore di un padre e di una madre, mentre nella testa gli risuonano ancora il suono finale dell'innamorato suicida, il volo dalla finestra la sera della cattura, e ancora di più gli insulti dei suoi compagni di baracca "puttana schifosa, finocchio, lurido porco, pisciategli addosso, sotto-uomo, frocio", la violenza della prima notte - stuprato da un righello di ferro, qualcuno non era sopravvissuto a questo sventramento -, e poi tutti gli altri assalti, kapò, ufficiali, comandanti, infiniti abusi di gruppo, immersioni negli escrementi, manganellate, cani feroci con le fauci aperte, compagni morti sbranati, annegati, castrati, fucilati, squassati, decapitati, appesi a un gancio, occhi e denti strappati, aghi infilati nelle gengive, fumi minacciosi nel cielo, e fame, fame sempre, fame pervadente. Questa oppressa da migliaia di morti è la mente di Klaus ( un omaggio, nella scelta del nome, allo scrittore Klaus Mann ) quando riconosce la casa dell'infanzia.
Abbracci sinceri e imbarazzati. Un orgoglio tedesco ancora in piedi. Nessun desiderio di fare domande, sentire racconti di tenebra e imbarazzarsi per una realtà da sempre oscurata per la vergogna. Nessuna intimità. E lui abitato dalla voglia di amore paterno, di mangiare, di lavarsi di continuo, di libertà. Intorno una famiglia ingessata. Oddio che sofferenza. Che voglia di mandare tutto all'aria. Infilarsi vestiti nel letto in camera con un fratello nemico, fare finta di dormire, chiudere ogni porta possibile.
E poi, finalmente, lentamente, molto lentamente, giorno dopo giorno di autoreclusione, l'uscita, il lavoro come sarto da un uomo degno di questo nome, l'amicizia - amicizia non amore - con René, un francese ex deportato determinato a tornare dalla moglie parigina con qualche chilo in più e una pelliccia col collo di ermellino tutta per lei, e poi l'infinito viaggio a zig zag, mezzo a piedi mezzo in treno, verso la Francia di un'agognata rinascita. Il lungo peregrinare è disseminato dal silenzio, dalla volontà di ogni persona incontrata di tapparsi gli orecchi davanti allo scandalo dell'omosessualità negata, giudicata, violentata.
Non c'è nessuno a cui parlare dell'esperienza buia del lager e del perché vi è stato recluso. Klaus ogni tanto non resiste: come quando nello scompartimento sbatte in faccia agli astanti perbenino la rampa di Buchenwald, la danza macabra in cui era stato immerso, i triangoli neri, rossi, marroni, viola, le botte, i cani, e di nuovo il sangue, i morti. Un passeggero lo schiaffeggia, René lo tira via, lo obbliga a scendere alla stazione successiva, nel nulla. E nel nulla - nonostante la Parigi allegra, le amicizie, perfino l'amore - Klaus continuerà a vivere.
Pochissimi vorranno sapere, pochissimi ascolteranno quest'uomo che ha deciso di non chinare la testa e non arrendersi mai.
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