La soluzione imperiale
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
sto leggendo un libro che ha avuto un grande successo internazionale: "Da animali a dèi: Breve storia dell'umanità" dello storico israeliano Yuval Noah Harari.
Il libro non mi piace affatto, perché è fitto di luoghi comuni spacciati come sconvolgenti novità, avvolto in quella specie di cinismo etico che fa tanto fine in ambienti progressisti, insomma potrebbe essere egregiamente antologizzato da un nuovo Flaubert che provasse a comporre un “Dictionnaire des idées reçues”, un’enciclopedia delle stupidaggini di moda come quello composto da Flaubert e pubblicato postumo poco più di un secolo fa.
Proprio per questo ho trovato molto utile un brano che vi sottopongo:
“Con l’avvio del ventunesimo secolo, il nazionalismo sta perdendo rapidamente terreno. Sempre più persone ritengono che tutti gli esseri umani sono fonte legittima di autorità politica, e non membri di una particolare nazionalità, e che il faro che guida la politica debba essere la salvaguardia dei diritti umani e la protezione degli interessi dell’intera specie umana. Se è così, il fatto che siamo divisi in quasi duecento stati indipendenti è certo un impaccio, non un aiuto. Poiché a svedesi, indonesiani e nigeriani spettano gli stessi diritti umani, non sarebbe più semplice che ciò venga salvaguardato da un unico governo globale? La comparsa di problemi che riguardano tutto il globo, come lo scioglimento delle calotte glaciali, erode progressivamente la legittimità degli stati-nazione indipendenti. […] Attenendoci al 2013, il mondo pare ancora politicamente frammentato, ma gli stati stanno perdendo velocemente la loro indipendenza. Nessuno di loro è davvero in grado di attuare politiche economiche indipendenti, dichiarare e condurre guerre come e quando gli pare, e neppure mettere in atto i propri affari interni come ritiene più opportuno. Gli stati sono sempre più esposti alle trame dei mercati globali, all’interferenza delle aziende globali e delle ONG, e alla supervisione dell’opinione pubblica globale e del sistema giudiziario internazionale. Gli stati sono tenuti a conformarsi agli standard globali del comportamento finanziario, della politica ambientale e della giustizia. Flussi di capitale, di lavoro e di informazione di enorme potenza modellano il mondo con una crescente noncuranza nei confronti dei confini e delle opinioni dei singoli stati […] L’impero globale che si profila davanti a noi non è governato da un particolare stato o gruppo etnico. In modo analogo al tardo impero romano, è retto da un’élite multietnica e tenuto insieme da una cultura e da interessi comuni. In tutto il mondo è chiamato ad aderirvi un numero sempre maggiore di imprenditori, ingegneri, esperti in vari campi, studiosi, avvocati e manager. Essi devono valutare se rispondere alla chiamata imperiale o rimanere fedeli al loro stato e al loro popolo. Sempre più numerosi sono coloro che scelgono l’impero.”
Questa citazione mi pare interessante perché sintetizza molto bene il “consenso di Obama”, quell’insieme di idee e posizioni sostenute come un dato di fatto da giornali “autorevoli” (New York Times, Le Monde, The Guardian, El Pais, da noi Repubblica e i suoi imitatori) e come obiettivo politico essenziale dalle forze “progressiste” di mezzo mondo.
Peccato però che oggi, solo dopo qualche anno, appaia pateticamente anacronistica. Perché non ha tenuto conto in negativo dell’assalto dell’Islam e della resistenza di dittatore per lo più neo- o post-comuniste come Russia, Cina, Vietnam, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, che pure erano già perfettamente visibili in quegli anni.
E in positivo, per aver trascurato l’attaccamento delle popolazioni alle loro tradizioni, lingue, culture, religioni, territori, insomma alle identità, che non hanno la minima voglia di essere sacrificate al futuro Impero universale, sedicente buono.
Soprattutto è stato determinante a rendere obsolete queste idee l’assalto dell’Islam respinto almeno a parole da tutti gli occidentali nella sua forma terroristica, ma con larghe complicità dell’élite “imperiale” nelle sue forme culturali e soprattutto dell’immigrazione. Ora insomma a questa storia dell’obsolescenza delle identità e degli stati ci credono in pochi, come mostrano le ultime elezioni: anche dove hanno vinto candidati “imperiali”, come in Austria, Olanda e Francia, i governi sono stati costretti ad assumere almeno in parte i toni e l’agenda dei cosiddetti “populisti” per non essere abbandonati.
Che fare dunqueper chi crede che il futuro sia dell’Impero?
A parte il travestimento quasi-populista di cui ho appena parlato,c’è stata una massiccia campagna di propaganda e soprattutto di auto-convinzione per sostenere che gli elettori sono stati traviati dalle “fake news”, dalla cattiva informazione: cattiva soprattutto perché gestita attraverso meccanismi di scelta capillare e “viralità” sui “social media” dalle stesse persona che votano: capaci paradossalmente di auto-traviarsi.
Non importa che giornali e media “autorevoli”, cioè “imperiali” abbiano svolto costantemente una politica informativa pessima, sostanzialmente propagandistica, censurando i fatti, fornendo interpretazioni assurde e cervellotiche, inventando continuamente notizie inesistenti e nascondendo quelle vere, come questo sito documenta da oltre quindici anni su Israele - ma il discorso si può estendere tranquillamente all’Islam, all’Europa, ai movimenti “populisti”: la campagna dei media contro Trump è un esempio così clamoroso di antigiornalismo in mala fede da essere destinato a restare nei manuali del futuro. Non c’entra.
I media ufficiali (ormai bisogna chiamare così New York Times e Repubblica e gli altri, come una volta si diceva della Pravda e del Secolo d’Italia) si autodefiniscono sacerdoti del giornalismo, mentre altrove circolano solo “fake news”.
Non ci crede nessuno, naturalmente. Ma si cerca di rendere questa leggenda obbligatoria in primo luogo con provvedimenti legali: l’Unione Europea, essa stessa parte in causa in questa storia, ha deciso da tempo che punirà i nuovi media (quelli vecchi no, naturalmente) se diffonderanno ciò che essa giudica “fake news”. Resta il piccolo problema di come implementare questa repressione, senza fare come la Cina o la Turchia, dove il governo chiude semplicemente i new media che non gli piacciono.
E dunque c’è un secondo sistema, questa volta informatico, che si sta preparando piano piano. Ve ne espongo una versione uscita nei giorni scorsi, proposto da Google, in collaborazione, guardate un po’, col New York Times, The Economist e The Guardian, alcuni fra i più grandi media imperiali che diffondono fake news politically correct (ma anche con Wikipedia, il che è certamente istruttivo).
E’ un sito chiamato in maniera molto neutrale “Perspective” (https://www.perspectiveapi.com ) che dice di voler “facilitare [ad altri siti e media] il compito di ospitare migliori conversazioni […] individuando quando un commento può essere ritenuto ‘tossico’ in una conversazione.”
In realtà lavora su parole o gruppi di parole. Per esempio “I hate” (io odio) è al 95% “tossico” anche se è combinato con parole del tutto innocue: “odio il tennis” è “tossico” al 92% e “odio nuotare” all’87%, “odio la musica pop” al 92 e bizzarramente “odio i fumetti” al 47%.
Se invece odiate l’Islam siete al 100% tossici (ma se vi limitate a un “don’t like”, non mi piace l’Islam, la tossicità è al 62%).
Potete continuare a fare esperimenti, se vi diverte, il sito è semplicissimo da usare, limitato però all’inglese. Se invece volete delle analisi, vi raccomando questa (https://www.gatestoneinstitute.org/10722/google-perspective-censorship ) che studia le dichiarazioni politiche e questa (http://www.tabletmag.com/scroll/241981/googles-new-hate-speech-algorithm-has-a-problem-with-jews ), che considera il rapporto non proprio di simpatia, diciamo, che il sito ha con il mondo ebraico.
Possono esserci difficoltà iniziali, come Google stessa dichiara, che saranno superate col tempo. Ma forse c’entrano anche le collaborazioni giornalistiche che vi ho appena elencato, tutte sostanzialmente contro Israele.
Il punto però è più generale, è l’introduzione di una soffocante censura automatica in rete basata sul “politically correct” (o sull’”imperially correct”), che potremmo trovarci presto imposta. In nome naturalmente della democrazia e della libertà di opinione. Un po’ come quel comitato centrale del Partito Comunista della Germania dell’Est preso in giro da Bertolt Brecht, che pure comunista era e tosto, che constatando che il popolo non aveva fiducia nel governo da esso nominato, decise di trovare una soluzione sciogliendo… il popolo (https://en.wikipedia.org/wiki/Die_L%C3%B6sung ).