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Il Dubbio-Il Tempo Rassegna Stampa
02.08.2017 Strage di Bologna: riaprire il processo
analisi di Paolo Delgado, Luca Rocca intervista Furio Colombo

Testata:Il Dubbio-Il Tempo
Autore: Paolo Delgado-Luca Rocca
Titolo: «Strage di Bologna 2 agosto 1980: e se la pista giusta fosse quella del Medio Oriente?-Il processo su Bologna va riaperto»

Con l'eccezione della STAMPA, con i servizi di Francesca Paci, nessun quotidiano a diffusione nazionale ha avuto il coraggio di affrontare i molti interrogativi legati alla strage dell stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Ne hanno scritto invece IL TEMPO,  con due servizi, l'analisi di Gian Marco Chiocci, ripresa su IC,  e oggi  Luca Rocca che intervista Furio Colombo.
Paolo Delgado su  IL DUBBIO rilancia l'ipotesi della pista mediorientale. Li pubblichiamo entrambi. 

Il Dubbio-Paolo Delgado: "Strage di Bologna 2 agosto 1980: e se la pista giusta fosse quella del Medio Oriente? a pag.8

Tentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d'Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l'inchiesta sui mandanti della strage. E' opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come "anelli intermedi": quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l'attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni. Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell'allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti. Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l'Italia come base in cambio dell'impegno a non colpire obiettivi italiani (a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l'ex presidente picconatore, escludeva dall'accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l'individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980. A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell'Intelligente come tanti: "Stefano d'Arabia", com'era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia.
Il secondo elemento d'interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979-80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant'anni di distanza, tanta prudenza? Allo stesso tempo va chiarito che appunti di Giovannone non escludonono affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista. L'antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e 1'8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam-7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l'arresto, per cercare invano di risolvere l'incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l'allora dirigente dell'Fplp Abu Sharif, nel corso dell'audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell'Olp a favore della liberazione dell'ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall'interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel '74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia. La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal '73 era in vigore l'accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d'arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell'epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell'Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta. Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l'intervento del responsabile dell'Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lanciamissili. In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell'Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l'Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell'Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell'Fplp George Habbash, che si dice pressato dall'ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l'eventuale attentato sarebbe commissionato a un'organizzazione esterna all'Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l'area dura dell'Fplp ha appena preso contatti. L'esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell'Olp da parte dell'Italia. In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d'azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un'azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l'avvio del processo d'appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d'Appello dell'Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l'occupazione di un'ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli e a ipotizzare un attentato "suggerito" dalla Libia all'Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all'Olp. L'ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l'appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma 1'11 luglio il direttore dell'Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell'Fplp. Né l'informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libicopalestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti. E, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l'attentato, di seguire tutt'altra pista.

IL RICORDO

L'autobus 37, simbolo dei soccorsi, ritorna 37 anni dopo la tragedia Un improvvisato pronto soccorso mobile, subito dopo lo scoppio della bomba e nelle ore successive un vero e proprio carro funebre per le vittime innocenti dell'attentato terroristico con la spola, fino a notte fonda, dalla stazione all'obitorio: è l'autobus della linea 37, matricola 4030, diventato l'emblema della strage del 2 agosto 1980. Dopo 37 anni, il bus tornerà in stazione, in piazza Medaglie d'Oro, domani, in occasione della giornata di commemorazione della strage di Bologna. Simbolo di una città che reagì tempestivamente ad una tragedia immane, il «37» non è mai stato dimenticato. Dopo il suo "pensionamento" è stato conservato, con una premura museale, nel capannone storico di via Bigari al riparo da agenti atmosferici e da pericoli di danneggiamento. Inoltre non è mai stato formalmente dismesso, ma tutt'oggi (seppur non circolante) resta immatricolato e targato come 37 anni fa per conservare la memoria storica di un testimone-simbolo del servizio alla città. Al bus matricola 4030 della linea 37, nei minuti successivi alla deflagrazione dell'ordigno, furono rimossi sul posto i montanti corrimano presenti in corrispondenza delle porte per poter permettere l'accesso più agevole delle barelle. Il giorno della strage, inoltre, del «37» si ricordano i lenzuoli bianchi fissati ai vetri per celare alla vista il carico di tragedia. Il bus sarà trasportato domani nella piazza di fronte alla stazione ferroviaria dove parleranno dal palco il sindaco di Bologna, Virginio Merola e il presidente dell'Associazione familiari delle vittime, Paolo Bolognesi. Il ritorno del 37 è stato reso possibile grazie a Tper (Trasporto passeggeri Emilia Romagna), al Comune e alla Città Metropolitana di Bologna. «La memoria della strage - sottolinea un comunicato congiunto dei tre enti - resta sempre viva nell'azienda di trasporti pubblici bolognese, che versò essa stessa il proprio tributo di morte alla barbarie terroristica di quel giorno».

Il Tempo- Luca Rocca:"Il processo su Bologna va riaperto" a pag.11
intervista a Furio Colombo

«Per me la strage non fu opera loro, la pista palestinese è plausibile, va verificata»
Falsa verità. Ci sono troppe testimoniane venute fuori all'ultimo momento nella condanna di Mambro e Fioravanti. lo non ci ho mai creduto.
La ricorrenza 
La pista palestinese per la strage alla stazione di Bologna è assolutamente plausibile, e la revisione del processo consigliabile e civile». A dirlo al Tempo, nel giorno del 37 anniversario della mattanza che il 2 agosto del 1980 fece 85 morti, non è un giornalista di destra magari pregiudizialmente schierato a favore dei colpevoli «ufficiali» Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ma Furio Colombo, «penna» nota e di sinistra ma che non si fa scrupoli, conoscendo gli atti processuali, nel ritenere gli ex terroristi dei Nar innocenti.
Colombo, lei non ha mai creduto alla colpevolezza di Mambro e Fioravanti. Perché?
«Perché ho letto molto del processo e credo che l'essenziale, e cioè la loro connessione a quella mostruosa vicenda, non sia fattualmente riscontrabile. Al contrario, ho trovato un'appassionata narrazione di persone che si sono accusate persino di fatti per cui non erano imputati, ma rigettando, con motivazioni logiche e difficili da abbattere, quella colpa.  È sempre complicato rimettere in discussione la verità processuale. I parenti delle vittime hanno paura che i loro lutti restino senza un colpevole la "costruzione di verità", impronte di mani che hanno lavorato per costruire il caso, testimonianze e dichiarazioni saltate fuori all'ultimo istante. Ecco perché sono sempre stato persuaso che la verità ufficiale sia stata fabbricata, ma penso sia stata fabbricata a destra per sacrificare Mambro e Fioravanti, che sono le vittime, e proteggere "altro"...».
Stefano Sparti, figlio di Massimiliano, il grande accusatore degli ex terroristi «neri», ha rivelato che suo padre, poco prima di morire, confessò di aver mentito su tutto.
«Per quel tanto di narratore che sono stato nella mia vita professionale, penso che quando una cosa la si dice in punto di morte, raramente si tratta di una trovata per un'ultima battuta. È un'impronta di particolare credibilità».
Trova convincente la «pista palestinese», e cioè una bomba piazzata dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina intenzionato a farci pagare il tradimento del «Lodo Moro», l'accordo fra fedayn e l'Italia per far transitare le loro armi sul nostro territorio in cambio della promessa di non subire attentati?
«Non ho investigato in questa direzione, ma si tratta di un'ipotesi perfettamente e assolutamente plausibile, persino logica e da prendere in esame con molta cura. Tenendo presente, però, che tra plausibile e verosimile c'è una distanza e tra verosimile e vero una ancora più grande».
Eppure è maledettamente complicato incrinare la "verità" ufficiale.
«Quando si trova una risposta che si ritiene abbia fatto giustizia e quando, ad esempio, i familiari delle vittime sono certi di avere ottenuto giustizia, allora è umano volere che quella risposta sia per sempre, per non dover riaprire il caso e ritrovarsi di fronte all'orrore di non sapere chi è stato. Il sapere chi è stato è una grande consolazione. Ciò spiega la tenacia con cui è continuata l'accusa nei confronti di Mambro e Fioravanti. Rimuoverla avrebbe riaperto l'abisso del non sapere e della giustizia incompiuta. Al contrario, una condanna, per quanto incredibilmente discutibile, dà l'impressione che giustizia sia stata fatta, nonostante la possibile, probabile e, secondo me, certa estraneità di Mambro e Fioravanti alla strage di Bologna. È molto dura liberarsi di questa forma di comprensibile e disperato pregiudizio».
Sarebbe giusta la revisione del processo, anche alla luce delle note dei nostri servizi segreti, ancora tenute segrete, che, come raccontato dal Tempo, nel biennio 1979-'80 descrivevano un Fplp intenzionato a colpirci duramente?
«Se c'è un solo fatto nuovo, sarebbe importante, consigliabile e civile, anche dal punto di vista dell'accuratezza del diritto, accogliere immediatamente l'idea della revisione del processo che porti a liberare Mambo e Fioravanti dall'unica accusa ingiusta che pesa sulle loro vite».

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