Riprendiamo dal SOLE24ORE/DOMENICA di oggi, 23/07/2017, a pag. 26, con il titolo "Elia, gran maestro d'ebraismo", la recensione di Giulio Busi al libro "Elia Benamozegh. Nostro contemporaneo ", Marietti editore, di Marco Cassuto Morselli, Gabriella Maestri.
Giulio Busi Elia Benamozegh La copertina
Elia è rimasto orfano di padre, e della sua educazione si occupa lo zio Yehudah. Tanti anni più tarJ di, quando il ragazzo, divenuto studioso di fama, scrive le proprie memorie, i suoi ricordi rievocano l'intimità domestica: «nelle lunghe notti d'inverno egli lesse, alla fioca luce di una candela di sego, mi sembra per ben due volte, lo Zohar dal principio alla fine». La scena potrebbe svolgersi in qualsiasi notte di diaspora, o nella terra d'Israele, in qualsiasi angolo del mondo ebraico, in qualsiasi secolo, dal tardo medioevo e per tutti i tempi in cui lo Zohar, capolavoro della mistica sefardita, può servire da guida e da sostegno. Tempi passati, oppure contemporanei, eccezion fatta per la candela di sego. Centinaia d'anni, migliaia e migliaia di chilometri, un atlante quasi illimitato di luoghi. Che si tratti di Elia Benamozegh, grande maestro d'ebraismo dell'Ottocento, e che quella lettura si sia svolta a Livorno, fa parte della nostra storia in questa recensione. Ma anche la sincronia delle possibilità e la ridda di altrove ebraici sono importanti, per avvicinarci un poco al segreto della tradizione ebraica. La vita di Elia Benamozegh si estende lungo il XIX secolo. Nato nel 1823, diviene rabbino di Livorno, e qui si spegne nel 1900. In tutti questi lunghi anni, lasciala sua città solo due volte, per recarsi... a Pisa. Sarebbe difficile immaginare un'esistenza più sedentaria, meno diasporica di questa. Se il fato della diaspora è movimento, inquietudine, instabilità, Benamozegh dimostra che si possono attraversare infiniti luoghi senza spostarsi da dove si è nati. Nel giudaismo, i testi, le parole contengono in sé tutto lo sperimentabile. Accanto alla diaspora dei luoghi fisici, ve n'è un'altra della scrittura e della lettura, una mobilità del libro, nel libro. Moltissime biografie ebraiche dei secoli passati, dagli stetlach dell'Europa orientale ai ghetti italiani e alle città dell'Oriente, si consumano in un sol luogo, si direbbe tra poche stanze. Quello di cui si è privati a forza, dall'isolamento e dalla segregazione, è possibile riprenderlo con la mente, così che i contatti con gli altri, negati nella quotidianità, si sfogliano con le dita e si scorrono con gli occhi. Elia Benamozegh, che mai si spostò dalla sua Livorno, espande le proprie opere in tutte le direzioni. Non un provinciale, o perlomeno, non nello spirito. Scrive in ebraico e in francese, partecipa a concorsi internazionali. Nel 186o, prende parte alla competizione indetta dall'Alliance israélite universelle di Parigi per stabilire quali siano gli elementi della dogmatica della moraleche il giudaismo ha trasmesso alle religioni che lo hanno seguito, cristianesimo e islam. Ne nasce un'opera molto vasta, di cui una parte, dal titolo Morale ebraica e morale cristiana, ottiene il premio dell'Alliance. Che Benemozegh, in questo e in molti altri suoi scritti, cerchi radici comuni, consonanze, fratellanze tra giudaismo e cristianesimo, fa parte della sua capacità di riportare la storia all'interno di un'unica, onnicomprensiva simultaneità di testi. Benamozegh legge i Vangeli e le lettere di San Paolo alla luce delle dottrine mistiche ebraiche. O più esattamente, messaggio cabbalistico e dottrina evangelica sono per lui come pagine diverse di uno stesso repertorio concettuale. È il vasto, perenne libro della spiritualità ebraica, in cui anche il magistero di Yeshua, come chiama all'ebraica Gesù, rappresenta una fase, una possibilità, un arricchimento. Quello che esce dalla penna di Benamozegh è una sorta di rabbi cabbalista, convinto che la folla non possa afferrare appieno «i misteri del Regno dei cieli». Secondo tale visione, solo a un certo momento della propria attività, quando ritiene sia giunto il tempo opportuno, Gesù decide d'infrangere il vincolo del segreto: «Quello che vi dico nelle tenebre, ditelo allaluce, e quello che ascoltate all'orecchio, predicatelo sui tetti» (Matteo 10,27). Ed è per questo, peravereviolato il principio esoterico della verità per pochi, che l'insegnamento evangelico avrebbe suscitato scandalo e rifiuto. Una simile prospettiva esegetica non va naturalmente misurata con lo stretto calibro della verosimiglianza storica. Che alla cultura e alla religiosità ebraica del I secolo si possano applicare i criteri e gli insegnamenti della mistica medievale, creduta da Benamozegh antichissima, è ipotesi per noi difficile da accettare. Ma il simbolo vive anche di misteriose consonanze, e nel dominio della mente, prima e dopo, vicino e lontano, possono ben confondersi, compenetrarsi, trascolorare. Elia Benamozegh, viaggiatore senza posa che non abbandonò mai la riva del Tirreno, ha imparato la lezione delle notti zohariche alla luce di candela. Vedere lontano, restando vicini.
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