Riprendiamo oggi,23/07/2017, dal CORRIERE della SERA il commento di Sergio Romano a pag.22 e da REPUBBLICA, a pag.10, l'intervista di Anna Lombardi a Assaf Gavron, entrambi preceduti da un nostro commento.
Corriere della Sera-Sergio Romano: " Le guerre inutili del Medio Oriente e le apparenti vittorie degli Usa
Sergio Romano Dan Vittorio Segre
Romano, invitato in Israele a un simposio dedicato a Dan Vittorio Segre - l'indimenticabile firma R.A.Segre per tanti anni prima sul Corriere poi sul Giornale- tocca un argomento, la 'neutralità', per riprendere le sue valutazioni anti-Usa, che qui sostituiscono quelle abituali su Israele. L'ipotesi 'neutralità' non è mai stata centrale nel pensiero di Segre, qui serve a Romano per divagare senza mai affrontare il centro del problema: il terrorismo islamico, il nazi-islamismo. Meglio ricordare le sconfitte e i fallimenti delle democrazie, si rischia meno e si sta tranquilli.
E'ancora possibile, in un mondo afflitto da guerre e minacce, parlare della neutralità come di un possibile rimedio all'uso della forza nelle relazioni internazionali? Ne era convinto Vittorio Dan Segre, scrittore e studioso italo-israeliano scomparso nel 2o14. Si era battuto per Israele come giornalista e soldato, ma era giunto alla conclusione che soltanto la scelta della neutralità fra i maggiori protagonisti delle interminabili crisi medio-orientali avrebbe spezzato la catena dei conflitti. A tre anni dalla sua morte il tema è stato discusso a Gerusalemme da un gruppo di amici, riuniti dal nipote Gabriele nel Centro Konrad Adenauer di fronte al Monte Sion e a pochi passi dal grande Mulino che Moses Montefiori aveva fatto costruire nella prima metà del XIX secolo per dare un lavoro alla povera comunità ebraica della città. In molti degli interventi ho trovato, insieme all'ammirazione per Segre, un'ombra di scetticismo. Non è facile parlare di neutralità in un'epoca in cui le fiamme della guerra bruciano il Grande Medio Oriente, dalle frontiere meridionali del Maghreb all'Afghanistan attraverso tutti i Paesi del Levante e della Mesopotamia. Questa non è una guerra regionale. È una guerra mondiale in cui combattono, a diversi livelli, gli Stati Uniti, la Isis Siamo in un vicolo cieco, anche se i nemici esistono e vanno affrontati con fermezza Russia, la Turchia, l'Iran e molte democrazie europee. La neutralità è possibile soltanto quando le potenze rivali smettono di temersi e di odiarsi. Uno Stato può proclamarsi neutrale soltanto se i suoi vicini sono disposti a riconoscere e rispettare la sua neutralità. È utile in questo momento e in queste circostanze, parlare di neutralità? Eppure non vi è mai stato un momento in cui le guerre fossero altrettanto inutili. Il Paese più bellicoso e maggiormente incline ai conflitti (gli Stati Uniti) non ha veramente vinto alcune delle sue guerre maggiori. Non ha vinto la guerra di Corea, terminata con un compromesso quando l'America ha rinunciato a debellare l'avversario. Non ha vinto la guerra del Vietnam, terminata quando gli americani hanno abbandonato il campo di battaglia. E quando ha vinto, come nelle due guerre del Golfo e in quella afghana dell'ottobre 2001, la vittoria è stata soltanto apparente e ha lasciato sul terreno una situazione non meno pericolosa e molto più instabile di quella che aveva preceduto l'inizio del conflitto. Forse l'aspetto più interessante e sorprendente di queste false vittorie è la particolare natura del falso vincitore: una democrazia militare in cui la ricchezza finanziaria, i progressi della scienza e quelli delle nuove tecnologie hanno creato il più raffinato e micidiale degli arsenali. Credo che fra la straordinaria efficacia di questo arsenale e la precarietà delle vittorie esista un nesso. Quanto più l'America mette in campo armi raffinate e distruttive, spesso concepite (come i droni) per ridurre drasticamente il numero delle proprie vittime, tanto più i suoi nemici sanno che non potranno mai batterla sullo stesso piano. E nata così la guerra asimmetrica in cui il nemico degli Stati Uniti ricorre ad armi di cui l'America non può servirsi: l'uso del soldato come bomba vivente, quello della popolazione civile come scudo umano, il massacro dei prigionieri, la distruzione del patrimonio culturale, gli attentati terroristici nelle retrovie del nemico. Possono esservi conflitti che terminano temporaneamente per la stanchezza di entrambi i combattenti, ma non si tratta quasi mai di pace e stabilità. Confesso di non sapere come sia possibile uscire da questo vicolo cieco in cui l'umanità del ventunesimo secolo sembra essere precipitata. I nemici esistono e devono essere affrontati, come nel caso dell'Isis, con fermezza. Ma quale è oggi il senso e la utilità di guerre che non possono essere vinte?
La Repubblica-Anna Lombardi: " Gavron: Ormai è chiaro Netanyahu non vuole cercare soluzioni pacifiche "
Per fare una intervista pilotata si deve fare come Anna Lombardi. Scegliere la persona giusta - e Gavron lo è- poi fargli delle domande che lo avviino sulla strada che vuole chi intervista. Il risultato è garantito. Lombardi comincia bene, i tre palestinesi sono 'morti', mentre i tre israeliani, specificando 'successivamente' sono stati 'pugnalati', non ammazzati, chissà forse solo feriti.
Le risposte di Gavron ci interessano poco, in Israele tutti possono dire la loro nella più totale libertà di parola. Gavron sa benissimo che più spara contro Netanyahu più copie dei suoi libri si venderanno in Italia, dove ovviamente è tradotto. Sono le domande della Lombardi a dare la linea. Infatti gli chiede " Perché pensa che al governo non interessi trovare una soluzione? " dicendo a chi legge l'intervista che è assodato che a Bibi non interessa trovare una soluzione. E' lei a suggerire che l'obiettivo era "
distrarre l'opinione pubblica " così Gavron la segue obbediente. Un colpo a Trump non poteva mancare, al punto che persino il povero Gavron si sente imbarazzato. Anna Lombardi si sarebbe trovata benissimo alla Pravda di staliniana memoria. Le tecniche applicate su Repubblica sono le stesse.
«ISRAELE in questo momento non è interessato a cercare soluzioni pacifiche: quello che è accaduto venerdì lo dimostra». Assaf Gavron, uno dei più affermati scrittori israeliani contemporanei, autore di libri come La mia storia, la tua storia e La collina, da tempo racconta le ragioni di entrambi, israeliani e palestinesi.
Venerdì sono morti tre palestinesi durante gli scontri e tre israeliani, pugnalati successivamente. C'è il rischio che la situazione si aggravi. Perché pensa che al governo non interessi trovare una soluzione?
«Che Israele non cerchi più soluzioni alla questione palestinese non è un fatto nuovo. Semmai non fa nemmeno più finta di cercarle. Non è un mistero che il premier Benjamin Netanyahu ha bisogno di mostrare i muscoli per tenersi stretto una poltrona minacciata non tanto dalle tensioni con i palestinesi ma dagli scandali che lo riguardano».
Pensa cioè che i metal detector alla spianata delle moschee e le tensioni che sono seguite possano essere stati un diversivo per distrarre l'opinione pubblica?
«Non mi stupirebbe, ma non posso nemmeno affermarlo con certezza. Di sicuro è una cieca reazione all'attacco del 14 luglio. Com'è possibile che il governo si sia riunito solo giovedì sera per discutere sull'opportunità di quei metal detector? Assurdo che nessuno se ne sia preoccupato prima, sapendo che quel luogo è una polveriera».
E ora cosa si aspetta? Vede possibile un passo indietro?
«Sarebbe la cosa più ragionevole, ma questo non vuol certo dire che lo faranno. Ci sono ragioni politiche interne per lasciare li quelle macchine: fare marcia indietro, per Netanyahu, significherebbe sembrare debole e dare un punto politico al suo maggior avversario a destra, Naftali Bennett. D'altronde in un paese come Israele dove tutto si basa sull'equilibrio dello status quo, lasciare li i metal detector che hanno retto quell'equilibrio è pericolosissimo»
La gente cosa pensa?
«Gli israeliani in questo momento vivono bene, si sentono relativamente al sicuro e la loro situazione economica è piuttosto buona. Non vedono motivi per cambiare politica. Quelli come me che pensano sia un grave errore sono minoritari. D'altronde qui i leader che hanno cercato la pace sono sempre stati visti come deboli. O sono morti assassinati o sono morti politicamente perdendo le successive elezioni. Per questo Netanyahu oggi gonfia i muscoli di fatto chiedendo al mondo di accettare Israele cosi com'è, territori occupati e colonie comprese».
Il cambio d'inquilino alla Casa Bianca ha influito su questo atteggiamento?
«Inizialmente Israele nutriva grandi speranze nei confronti di Donald Trump e delle sue promesse elettorali. Poi si sono resi conto anche qui di quanto Trump sia imprevedibile: ha cambiato opinione sul processo di pace, sulla sede dell'ambasciata americana. E perfino sull'accordo nucleare iraniano: nonostante tante chiacchiere, Trump non sta andando nella direzione in cui Netanyahu e il suo governo speravano. Naturalmente c'è meno pressione rispetto ai tempi di Barack Obama. Ma anche se i rapporti sono più amichevoli, di sicuro non sono rilassati. E comunque gonfiare i muscoli fa parte della vecchia tattica israeliana. Sta al mondo accettarlo o meno: e speriamo ci sia una reazione».
Che cosa succederà dunque?
«Lo capiremo nei prossimi giorni: molto dipenderà dall'atteggiamento che le forze di sicurezza israeliane ed il governo decideranno di assumere. Probabilmente cercheranno di gestire le cose come sempre: facendo, insomma, due passi avanti e uno indietro in modo da contenere le violenze senza però risolvere nulla. Quello che invece potrebbe accadere è che Netanyahu venga fermato dai suoi problemi legali, le accuse di corruzione. Un processo potrebbe detronizzarlo e portare a un cambiamento politico».
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