Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 20/07/2017, a pag. 12, con il titolo "Il principe Gattopardo: il regime non si cambia", il commento di Michele Giorgio.
Michele Giorgio condanna senza mezzi termini l'Arabia Saudita, un Paese in cui i più elementari diritti vengono quotidianamente calpestati e in cui è addirittura vietato alle donne di guidare l'automobile, di circolare non accompagnate dal marito, padre o fratello e di mostrare il volto. Che Michele Giorgio sia diventato da un giorno all'altro paladino dei diritti oppressi nei Paesi arabi e musulmani? Certamente no, perché Giorgio attacca l'Arabia Saudita soltanto da quando questo Paese ha rinsaldato una alleanza pragmatica con gli Usa di Donald Trump. Nessun interesse per i diritti da parte di Giorgio, dunque, ma solo la volontà di screditare Trump e l'alleanza delle monarchie sunnite. Infatti Giorgio assolve completamente l'Iran, Paese in cui anche i diritti civili e umani sono violati e calpestati senza misura. Il Manifesto, così, non si fa scrupolo a utilizzare i diritti come arma per attaccare, di fatto, la politica di Trump e l'alleanza anti-sciita in Medio Oriente.
Ecco l'articolo:
Michele Giorgio
La presunta volontà di innovazione e trasformazione, sociale ed economica, di re Salman dell'Arabia saudita e soprattutto di suo figlio e (neo) principe ereditario Mohammed, è il filo conduttore di un reportage, dal titolo «Il Regno svelato», apparso a inizio luglio su Repubblica.it.
UN LUNGO RACCONTO che apre finestre interessanti su diversi aspetti su di un paese per vocazione inchiodato al passato e che si traveste di modernità indossando un abito fatto di costruzioni avveniristiche, automobili costose e ostentazione di ricchezza. Racconto che diventa «fiction» quando lascia intendere al lettore che il giovane Mohammed, di fatto già al comando grazie al suo piano Vision 2030, ha tutte le carte in regola per «traghettare» l'Arabia saudita verso un futuro di progresso. Per fortuna sono proprio i sauditi intervistati, anzi le saudite, a riportare il lettore alla realtà. Mohammed bin Salman risulterà simpatico a Repubblica.it ma non è il «cambiamento» auspicato.
IL RAMPOLLO è l'incarnazione del sistema saudita, è la perpetuazione di un regno creato dal colonialismo occidentale e che si è assegnato un ruolo: imporre la sua supremazia nella regione, combattere lo sciismo e imporre a tutti i musulmani il wahhabismo, cugino stretto del salafismo radicale di Isis e al Qaeda, grazie anche all'impiego delle ingenti fortune economiche e finanziarie prodotte dall'esportazione del greggio. E fino a quando i Saud guideranno il paese, in stretta alleanza con il clero wahhabita, l'Arabia saudita non potrà cambiare all'interno perché solo così può garantire il dominio dell'establishment politico-religioso, con il consenso di una larga parte della sua popolazione come dimostra il sostegno che ha ricevuto l'arresto della ragazza che qualche giorno fa su Snapchat aveva osato mostrarsi in minigonna e non con il tradizionale abaya nero. Il modello wahhabita, nella visione dei Saud, è quello al quale dovranno adattarsi e piegarsi i musulmani, ovunque. È la forza che dovrà spazzare via l'Islam popolare e variegato, figlio delle culture dei suoi tanti popoli. E la spada che dovrà schiacciare il revival sciita incarnato dall'Iran.
IL GIOVANE PRINCIPE Mohammed ha già mostrato di essere in linea con questo modello strategico, militare, economico, religioso e sociale. Solo una lettura ingenua può vedere in Vision 2030 un cambiamento reale, anche nella società. Nella migliore delle ipotesi è, come nel Gattopardo, un cambiamento che non cambia nulla. Parla l'ardore con il quale Mohammed bin Salman ha promosso l'intervento militare dell'Arabia saudita in Yemen, per ribadire la storica egemonia del paese nel più povero degli Stati della regione e fermare «l'espansionismo iraniano» alleato dei ribelli sciiti Houthi.
UNA GUERRA SPORCA, sanguinosa, di cui non si parla e non si scrive, nel rispetto della regola che vuole che non si riferisca dei crimini commessi dagli al leali dell'Occidente, come l'Arabia saudita. Due giorni fa l'ennesima mattanza di civili: 20 yemeniti sono stati uccisi in un raid aereo a guida saudita su un campo profughi nella provincia di Taiz. La notizia data dall'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha trovato ben poco spazio sui media italiani, a differenza della guerra civile in Siria, un altro scenario in cui Riyadh è largamente coinvolta con effetti devastanti, attraverso il finanziamento di gruppi salafiti responsabili di attentati e di governare con brutalità i territori sotto il loro controllo. Lo stesso era avvenuto in Afghanistan con i finanziamenti prima ai mujaheddin anticomunisti e poi ai Taliban. Ma l'Occidente finge di non vedere. L'attenzione ora è rivolta ai «crimini del regime di Bashar Assad». Fanno gola le decine di miliardi di dollari che l'Arabia saudita investe ogni anno nell'acquisto di armi occidentali. Ne sa qualcosa Donald Trump che due mesi fa, durante la sua visita a Riyadh, ha firmato accordi per forniture di armi ai sauditi per (almeno) 110 miliardi di dollari.
VIAGGIO CHE HA APERTO la strada alla decisione di re Salman di nominare principe ereditario il figlio Mohammed, gradito all'amministrazione Usa. E che ha anche dato il via libera all'offensiva dei Saud contro il Qatar, petromonarchia filo-Usa come quella saudita ma incostante nell'azione anti-Iran che pretende Riyadh.
NON SONO TUTTE VITTORIE quelle che ha raccolto il giovane falco Mohammed. Anzi, proprio Washington ha frenato i suoi impulsi «eccessivi» che rischiavano di compromettere la stabilità del Golfo a danno degli interessi Usa. Le 13 condizioni che i Saud e i loro alleati avevano posto a Doha per mettere fine alla crisi ora sono diventate sei «principi» per un compromesso. Una battuta d'arresto che non fermerà il principe che ha in mente un solo futuro per il paese: egemonia regionale e conservazione sociale.
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