sabato 23 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
19.07.2017 Il terrorismo islamico non si vince con marce e lumini dopo gli attentati
Commento di Marek Halter

Testata: La Repubblica
Data: 19 luglio 2017
Pagina: 15
Autore: Marek Halter
Titolo: «Il mio viaggio con 60 imam attraverso l’Europa ferita dai traditori del Corano»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 19/07/2016, a pag. 15, con il titolo "Il mio viaggio con 60 imam attraverso l’Europa ferita dai traditori del Corano", il commento di Marek Halter.

La marcia organizzata in Francia da Marek Halter, e che ha coinvolto alcune decine di imam, ha la stessa efficacia dell'accensione di lumini in memoria delle vittime delle stragi islamiste dopo gli attentati. Quello che serve  non è commemorare o diffondere buoni sentimenti, ma prevenire, affrontando direttamente il problema. Questo può avvenire soltanto con una presa di coscienza all'interno del mondo islamico che oggi appartiene a pochissimi intellettuali isolati, quasi sempre in esilio dai propri Paesi.

L'opinione di Marek Halter è conciliante, ricorda quella espressa da Papa Francesco: entrambi vedono un mondo in pace che non esiste. Bene fa Halter a parlare di islam, ma fino a che non indicherà con chiarezza che cosa sia quello che definisce "islam moderato" questo rimarrà un vuoto slogan. Per di più pericoloso, perchè nasconde la realtà, che è sempre meglio conoscere. Lo stesso Halter, in ogni caso, non può fare a meno di scrivere della "deriva sanguinaria di questa religione".

Ecco l'intervista:

Immagine correlata
Marek Halter

Una decina di giorni fa, la mattina dell’8 luglio sugli Champs Élysées si è fermato uno strano pullman: grande, imponente, con scritto sul fianco, a grandi lettere, in francese, arabo e inglese, «La Marcia dei musulmani contro il terrorismo». Il luogo scelto non era casuale: lì il 20 aprile di quest’anno un assassino aveva ucciso l’agente di polizia Xavier Jugelé. Contro ogni attesa, quel veicolo non ha provocato nessun assembramento: solo all’arrivo di una sessantina di imam, vestiti negli abiti tradizionali e seguiti da qualche decina di telecamere e qualche fotografo, si è formata una piccola folla sul marciapiede. Poi è stata la volta della polizia, incaricata della protezione di quello strano raduno. Un’ora dopo la nostra delegazione si imbarcava per un giro d’Europa attraverso i luoghi dove, in nome dell’Islam, degli assassini hanno tolto la vita a degli innocenti. «L’omicidio non sarà mai ai miei occhi un oggetto di ammirazione e un argomento di libertà; non conosco niente di più servile, di più spregevole, di più codardo, di più ottuso di un terrorista»: dopo le stragi di Tolosa, Parigi, Bruxelles, Saint-Étienne-du-Rouvray, Berlino, Nizza, Stoccolma, Londra, Manchester, questo grido accorato, lanciato quasi due secoli fa dallo scrittore François-René de Chateaubriand, era diventato nostro.

 

Quando dico “nostro” penso anche al miliardo e trecento milioni di musulmani di tutto il mondo, il cui libro sacro, il Corano, ricorda che «chiunque ucciderà una persona senza che questa abbia ucciso un’altra o portato la corruzione sulla terra, è come se avesse ucciso l’umanità intera» (sura V, 32). E in effetti coloro che hanno ucciso hanno sporcato tutti noi, qualunque sia la nostra fede, del sangue delle loro vittime. Era giunto il momento che gli strateghi della morte ascoltassero non solo le nostre consuete condanne, ma anche, ma soprattutto, il grido d’orrore dei milioni di musulmani che cercano di irreggimentare nella loro sanguinosa epopea. Perché nei paesi europei la diffidenza verso le minoranze musulmane cresce. Per non doverci trovare ben presto ad assistere agli scontri intercomunitari in cui spera Daesh, bisognava agire in fretta: così io e l’imam Hassen Chalghoumi, presidente della Conferenza degli imam francesi, abbiamo deciso di organizzare, con decine di imam, intellettuali, responsabili religiosi e politici, la prima Marcia dei musulmani contro il terrorismo. La prima tappa è stata Berlino, domenica 9 luglio. È sulla Breitscheidsplatz, di fronte alla chiesa del Ricordo, dove il 19 novembre 2016, durante il mercatino di Natale, un assassino aveva scagliato un camion contro la folla uccidendo dodici persone, che è stata pronunciata la preghiera. Padre Martin Germer, responsabile della chiesa del Ricordo, aveva mobilitato tutta la comunità protestante e gli esponenti della comunità cattolica, ebraica e musulmana della città. Nonostante ciò, la folla non superava qualche centinaio di persone. Mi sono reso conto che negli ultimi anni il senso della militanza è cambiato.

Non è più l’epoca dei grandi raduni, delle bandiere al vento, dei pugni levati. I più anziani sono in comunione spirituale con i loro televisori, i più giovani con i social network. E infatti il segretario di Stato agli Interni, Hans-Georg Engelke, che rappresentava Angela Merkel, ci ha confidato che era rimasto impressionato dalla quantità di foto che circolava sulla Rete. Se le folle non hanno risposto all’appello, va detto che il pullman è stato applaudito nelle tante città grandi e piccole che abbiamo attraversato, suscitando perfino concerti di clacson a diversi incroci. La seconda tappa è stata Bruxelles, in place de la Bourse, il luogo scelto dai belgi in seguito ai sanguinosi attentati del Museo ebraico del Belgio il 24 maggio 2014, e poi, il 22 marzo 2016, all’aeroporto e alla stazione della metro di Maelbeek, per deporre fiori e accendere candele. La preghiera di quei 63 imam, con i palmi alzati verso il cielo, ha suscitato più curiosità che ammirazione per il loro coraggio. Eppure di coraggio ne serviva: con il loro gesto, la maggior parte di questi uomini e donne si ritrova nel mirino di Daesh.

Chi sono questi 63 imam? Innanzitutto degli uomini, inorriditi dagli atti di violenza perpetuati in nome di una religione, nel caso specifico la loro. C’era l’imam della Grande moschea di Tunisi, l’imam della Grande moschea di Berlino, il muftì di Spagna, quelli del Portogallo, di Marsiglia e del Mali, della Guinea, gli imam di Parigi, del Belgio, del Regno Unito... Qua e là, in questo periplo di 4.500 chilometri attraverso l’Europa straziata, ci sono stati momenti di emozione. Per esempio nella piccola chiesa di Saint-Étienne- du-Rouvray, dove padre Jacques Hamel è stato sgozzato il 26 luglio 2016, i rari giornalisti presenti sono scoppiati a piangere quando, vedendo gli imam pregare in memoria del fratello, l’anziana sorella del prete li ha abbracciati, uno dopo l’altro, ripetendo: «Siete i miei fratelli».

O ancora a Tolosa, nel cortile della scuola ebraica, dove, il 19 marzo 2012, Mohamed Merah ha giustiziato quattro bambini, tra cui la figlia del direttore della scuola, il rabbino Yaacov Monsonégo, che malgrado il suo dolore ha accolto a braccia aperte l’arrivo di questi imam venuti a rendere omaggio alla sua piccola assassinata. È stato a Parigi, di fronte all’Hyper Cacher della Porte de Vincennes, dove Amedy Coulibaly uccise a sangue freddo quattro ostaggi il 9 gennaio 2015, e poi davanti al Bataclan, dove il 13 novembre dello stesso anno 90 persone perirono sotto le pallottole di tre assassini al soldo dell’Isis, che l’arrivo della Marcia è stato accolto dalle folle più nutrite. I giornalisti erano invece meno numerosi. È a causa dello scarso impegno delle istituzioni dell’Islam francese nei confronti di questa iniziativa e del rispetto che nutrono i francesi verso le rappresentazioni ufficiali? O a causa di un razzismo popolare e inconsapevole che fa sì che un arabo che ammazza sia più interessante dell’arabo che lo condanna? Il bilancio, comunque sia, è più che positivo, perché la stampa araba ha dato grande risalto all’iniziativa. La nostra Marcia contro il terrorismo è la prima manifestazione, all’interno dell’Islam, contro le derive sanguinarie di questa religione. Alla domanda della Bibbia «sono forse il guardiano di mio fratello?», esponenti musulmani fra i più rappresentativi hanno risposto di sì.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

Per inviare la propria opinione alla Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT