Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 16/07/2017, a pag.22, con il titolo "Hitler dichiara guerra all' 'arte degenerata' ", l'articolo di Maurizio Assalto.
Maurizio Assalto
Nei filmati d’epoca i visitatori si aggirano tra i quadri e le sculture con espressioni circospette, come chi ha di fronte qualche cosa di inaudito e imbarazzante. Qualcuno scuote la testa, due donne si scambiano un’occhiata incredula, una signora ostenta una smorfia di compiaciuto disgusto, qualcuna fa un risolino beffardo, qualcuna resta come inebetita a fissare, qualcuna osserva veloce e tira dritto - ma poi gira la testa per dare ancora un’occhiata. La buona borghesia tedesca, ben vestita e poca colta. E ligia al Führer.
È il 19 luglio 1937, ottant’anni fa, e al secondo piano dell’Istituto archeologico di Monaco si inaugura la mostra Entartete Kunst, Arte degenerata, come erano bollate dai nazisti tutte quelle correnti - dall’espressionismo al dadaismo, dal cubismo al fauvismo al surrealismo alla Nuova oggettività - che non erano conformi ai dettami estetici del regime. Hitler aveva un passato di pittore, e in materia aveva le idee chiare. Le aveva esposte nel Mein Kampf, e ribadite nel discorso tenuto nel ’35 al Congresso del Partito, nella sessione sulla cultura: «Ciò che si rivela “culto del primitivo” non è espressione di un’anima naïve, ma di un futuro completamente corrotto e malato. […] Il compito dell’arte non è quello di richiamare segni di degenerazione, ma di trasmettere benessere e bellezza».
Benessere e bellezza
Benessere e bellezza, forza e salute, attaccamento alla terra, al lavoro e alle tradizioni germaniche erano i valori esaltati dalla Grosse Deutsche Kunstaustellung, la rassegna della Grande arte tedesca che il Führer in persona aveva inaugurato il giorno prima a pochi passi dall’Arte degenerata, nella nuova Haus der Deutsche Kunst. In una profusione di nudi maschili e femminili, ma privi di qualsiasi sottinteso erotico, di statue ispirate all’antichità classica, ma troppo imponenti, rigide, senza grazia, era il trionfo della razza ariana nella sua dimensione idealizzata atemporale.
Tutto all’opposto di quanto si poteva vedere nelle sale dell’Entartete Kunst, con quei corpi stravolti dai contrasti cromatici, deformi, storpiati, ammiccanti: vettori di inquietudine anziché di certezze, espressioni di critica e di sfiducia, di una radicale contestazione antiborghese e antimilitare, potenzialmente disgregante dell’ordine sociale propagandato dal nazismo. «Non è obiettivo dell’arte», continuava il discorso del Führer, «quello di rovistare nella spazzatura, rappresentare l’uomo soltanto nella sua condizione di putrefazione, descrivere gli imbecilli come simboli della maturità e indicare gli storpi come esponenti della forza virile». Concetti ripresi all’inaugurazione della mostra berlinese da Adolf Ziegler, il pittore che nel ’36 era stato posto da Goebbels a capo del Dipartimento di Arti visive della Reichskulturkammer: «spazzatura» giudaico-bolscevica, «mostruosità della follia, dell’impudenza, dell’inettitudine», se non di perfidia antitedesca. Perché una ragione non secondaria di sospetto verso i «degenerati» era la loro matrice razziale e ideologica, la stessa che nel ’33 aveva portato alla chiusura del Bauhaus «covo di cultura bolscevica».
Pubblico ludibrio
La rassegna dell’Entartete Kunst, a ingresso libero, vietata ai minori di 18 anni e accompagnata da una guida che spiegava il modo giusto di accostare quegli oggetti aberranti, aveva lo scopo paradossale non di valorizzare, ma di esporre al pubblico ludibrio circa 650 opere di 112 autori, una piccola ma significativa parte delle oltre ventimila requisite nelle collezioni pubbliche e private. Erano presenti artisti come Chagall, Ernst, Klee, Grosz, Kandinsky, Mondrian, Kokoschka, Dix, Kirchner, Van Gogh. Ma non venne risparmiato neppure Franz Marc, che per la Germania aveva dato la vita nella Grande Guerra. E ci fu il caso di autori rappresentati in entrambe le mostre contemporanee, come Rudolf Belling e Emil Nolde, membro fervente del partito nazionalsocialista, che nondimeno si era visto recapitare una lettera in cui il terribile Ziegler gli comunicava il sequestro di 1052 opere, l’espulsione dalla Camera delle Belle Arti e il divieto di continuare a dipingere.
Nelle sale dell’Istituto archeologico l’effetto gogna era ottenuto con un allestimento affastellato in ambienti angusti e soffocanti, per accrescere il disagio dei visitatori costretti a urtarsi in continuazione. Il materiale era distribuito in sezioni dai titoli eloquenti («Manifestazioni dell’arte tedesca giudaica», «Invasione del bolscevismo», «Oltraggio agli eroi», «La donna tedesca messa in ridicolo»), diversi quadri erano appesi storti, o accostati a disegni e fotografie di malati di mente, e la maggior parte era accompagnata da un cartello che esibiva il prezzo pagato con il danaro del «popolo lavoratore tedesco» agli astuti mercanti ebrei durante la sciagurata era weimeriana: in modo da stimolare, in aggiunta al disagio e allo scherno, l’indignazione e la rabbia.
Delle ventimila opere confiscate dai nazisti, almeno cinquemila andarono perdute: disperse, distrutte, bruciate nei roghi, come quello che nel ’39 illuminò di sinistre vampate la sede dei pompieri di Berlino (la Freie Universität ha creato una banca dati con tutte le informazioni su ogni singolo pezzo, http:/entartetekunst.geschkult.fu-berlin.de).
Il conflitto imminente
Ma la necessità di danaro per finanziare l’imminente guerra consigliò più pragmaticamente di vendere all’estero le opere scellerate. In un’asta organizzata il 30 giugno 1938 alla Galerie Fischer di Lucerna ne furono piazzate 85 sulle 125 messe all’incanto, per un ricavo pari a oltre 20 milioni di euro attuali. Alcune riemergono periodicamente ancora ai giorni nostri, come le 11 ritrovate nel 2010 a Berlino durante i lavori per la metropolitana, sepolte di fronte al municipio da un certo Erhard Oewerdieck, che le aveva messe al riparo dopo aver salvato diversi ebrei, o le oltre 1500 (in gran parte degenerate) scoperte nel 2012 in casa di Cornelius Gurlitt, figlio del mercante d’arte di fiducia del Führer.
E gli artisti? Molti, seguendo l’esempio di George Grosz e Max Beckmann, scelsero di fuggire dalla Germania. Ernst Ludwig Kirchner, tra i fondatori del gruppo Die Brücke, cadde in depressione e si uccise in Svizzera nel ’38. Otto Freundlich, la cui scultura L’uomo nuovo campeggiava sulla copertina del catalogo dell’Entartete Kunst, fu deportato e ucciso nel Lager di Majdanek, mentre Felix Nussbaum finì i suoi giorni ad Auschwitz.
La mostra dell’arte degenerata rimase a Berlino fino all’autunno, per iniziare poi un tour che l’avrebbe portata in altre dieci città della Germania e dell’Austria. In quattro mesi aveva registrato un afflusso record di due milioni di visitatori, contro i 550 mila della rassegna concorrente, contribuendo alla lunga, anche contro le intenzioni degli organizzatori, alla conoscenza e alla popolarità di quegli artisti. Ma l’eliminazione delle opere degenerate non rappresentava che un preludio: la Shoah dell’arte era una prova generale di quella che sarebbe seguita.
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