lunedi` 25 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
13.07.2017 'Io non mi chiamo Miriam', di Majgull Axelsson
Recensione di Alessandro Litta Modignani

Testata: Il Foglio
Data: 13 luglio 2017
Pagina: 3
Autore: Alessandro Litta Modignani
Titolo: «Io non mi chiamo Miriam»
Riprendiamo dal FOGLIO del 10/07/2017, a pag. 3, la recensione a "Io non mi chiamo Miriam", di Alessandro Litta Modignani.

Alessandro Litta Modignani
Alessandro Litta Modignani

Immagine correlata
La copertina (Iperborea ed.)

Miriam Goldberg è un’anziana signora svedese di origine ebraica, amata e rispettata da tutti. Sopravvissuta ai campi di sterminio, è stata accolta e protetta nel paese di adozione e ha potuto costruirsi una nuova famiglia. E’ diventata moglie, madre, nonna e persino bisnonna. I suoi cari si riuniscono al completo per festeggiarne l’85° compleanno, ma il regalo di un bracciale d’argento sbalzato a mano, con inciso il suo nome, le provoca una violenta tempesta emotiva. Quel metallo le riporta alla memoria il padre, un umile argentiere, e poi la sorella, il fratellino… L’agitazione interiore la spinge a pronunciare la frase che dà il titolo al romanzo, e un lungo dialogo con la nipote prediletta la induce, un poco alla volta, a raccontare il tragico passato, rivelando un segreto dolorosamente custodito per 70 anni. Il suo vero nome è Malika, non Miriam; non è ebrea, ma rom. Poco più che adolescente, Malika è stata imprigionata, chiusa in convento, poi deportata ad Auschvitz, infine trasferita a Ravensbruck.

Prima di scendere dal vagone merci, dove è stata picchiata da alcune “politiche”, scambia il vestito lacerato con quello di una ragazza morta durante il viaggio. Su quel braccio è inciso un numero quasi simile al suo. Su quella manica è cucita una stella gialla. “Non pensare che le cose siano più facili… I tedeschi odiano più noi di voi… Le politiche? Credimi, anche loro ci odiano. L’unico che amano è Stalin. (…) Ti chiami Miriam Goldberg.” Malika girò appena la testa lanciando un’occhiata alla smunta. “Cosa…?” “Ho visto il numero sul tuo vestito. La conoscevo. Se vuoi sopravvivere al prossimo passaggio delle consegne, ti chiami Miriam Goldberg”.

La Axelsson si sottrae magistralmente a tutte le astuzie che lo spunto narrativo sembra offrirle, ai tanti luoghi comuni che oggi costituiscono l’armamentario di un certo antisemitismo “soft”: l’accusa agli ebrei di voler monopolizzare il genocidio, i paragoni odiosi con chi avrebbe “sofferto di più”, il tentativo “sociale”, cioè ideologico, di banalizzare la Shoah. “Perché girava per il campo con una cicatrice sul braccio, un triangolo giallo e un numero falso sulla fascia? (…) Oltretutto, non le dava neanche un vantaggio in rapporto alle SS e alle Aufseherinnen, anzi. La ragazza smunta che aveva conosciuto all’arrivo aveva ragione: i nazisti odiavano gli ebrei più di quanto odiassero gli zingari. E però gli altri prigionieri disprezzavano gli zingari più degli ebrei. Il fatto era che nessuno, a parte le puttane e i ladri, sembrava disprezzare gli ebrei, mentre tutti si permettevano di disprezzare gli zingari”. Nessuno ha potuto sottrarsi al suo tragico destino, è il grido disperato di Malika/Miriam, perché di fronte al Male Assoluto siamo tutti inermi, naufraghi alla deriva in un oceano in tempesta. Se qualcuno si è salvato, è stato solo per miracolo, o per caso.

Particolarmente interessante, per il profilo psicologico della protagonista, è il racconto dei gravi disordini che nel 1948 – a tre anni dalla Shoah – sconvolgono un quartiere della cittadina svedese di Jonkoping, quando una massa inferocita scatena la caccia allo zingaro. Un episodio realmente accaduto, sconosciuto ai più, scavando nel quale l’autrice riesce a mettere a nudo alcune fra le peggiori pulsioni dell’animo umano. Best seller delle edizioni Iperborea nel 2016, “Io non mi chiamo Miriam” è un romanzo toccante, sensibile, di forte impatto emotivo. “Effettivamente Miriam non è ebrea, ma la sua sofferenza e le sue privazioni nel lager sono in tutto e per tutto quelle di un’ebrea. E’ una delle molte qualità di Io non mi chiamo Miriam” ha scritto Bijorn Larsson nella postfazione.

Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT