Riprendiamo da SHALOM di giugno 2017, a pag. 4, con il titolo "Giugno 1967: cronaca di una guerra di sopravvivenza", l'analisi di Fiamma Nirenstein; a pag. 6, con il titolo "Gerusalemme e quel confine che non c’è più", l'analisi di Massimo Lomonaco; a pag. 10, con il titolo "Israele vinse la guerra ma perse la simpatia del mondo", l'analisi di Daniele Toscano.
Ecco gli articoli:
Fiamma Nirenstein: "Giugno 1967: cronaca di una guerra di sopravvivenza"
Fiamma Nirenstein
Guerra dei 6 giorni: i soldati israeliani a Gerusalemme
Fra le tante “narrative” fasulle quella sulla Guerra dei Sei Giorni è fra le più fastidiose. E ormai di moda negare che esista la verità, anzi, una realtà storica e immaginare che le verità possano essere tante. Ma non è così: accade a causa di questo relativismo che si arriva ai peggiori negazionismi, come quello che la Shoah non sia mai esistita, o che gli ebrei non abbiano mai avuto niente a che fare con Gerusalemme: le peggiori bugie diventano verità soltanto perché la politica, il conformismo, la macchina propagandistica, la paura, il desiderio di compiacere le rendono tali. Questo nasconde la storia, e niente è più dannoso all’essere umano, ai giovani, che essere ridotti privi di memoria. Adesso piace, con tono equanime e pacifista, ricordare quella guerra iniziata il 5 giugno di cinquant’anni fa, quasi come una guerra di aggressione, maligna, espansionista, prodromo di quella cosa così indecente che è poi stata chiamata “occupazione”, la perfida madre dei “coloni” e dei “territori”, l’inizio di una problematica che prima non c’era, e che poi è diventata sangue sudore e lacrime. Tanti hanno scritto e detto sulla Guerra dei Sei Giorni con toni luttuosi, stravolgendone interamente il significato.
Come prima cosa va ristabilita una verità che si va perdendo: la Guerra dei Sei Giorni ha salvato Israele da morte certa, è stata la meravigliosa guerra di difesa che ha permesso, con un’invenzione strategica geniale, a Israele, di battere i nemici arabi uniti in coalizione e pronti a invaderla da tutti i fronti atterrando l’aviazione dello stato leader del panarabismo genocida, l’Egitto. Per verificare la storia di quel periodo basta leggere il famoso testo di Michael Oren, che racconta quanto Israele abbia odiato l’idea di entrare in guerra e sia stato costretto a farlo. Nessun disegno di conquista, nessuna voglia di una “Grande Israele” in quelli che allora, ricordiamo anche questo perché non lo si sa più, erano territori occupati dalla Giordania con la guerra del ‘48 a costo di molto sangue ebraico a Gerusalemme, e delimitati da linee armistiziali. Di Stato Palestinese non ce n’era l’ombra né l’idea, mentre era chiarissimo il desiderio ribadito e praticato fin dagli anni Trenta, di voler sradicare con la violenza la presenza ebraica da quella che viene dai musulmani considerata la “humma islamica”: gli ebrei devono essere ributtati in mare, allora come prima e come oggi. Qui sta tutto il nodo da cui si origina la filosofia e la pratica di una guerra che ci è quasi riuscita se non fosse stata per la incredibile tenacia e volontà di sopravvivenza del popolo ebraico.
Dopo il Faraone, i cosacchi, Hitler, Stalin… Israele ce la fece anche con gli egiziani, i siriani, i giordani, gli iracheni coalizzati e già ammassati sulle sue frontiere da ogni parte. E fu solo grazie alla genialità e all’eroismo di Yitzhak Rabin, di Moshe Dayan, e di tutti i soldati e in particolare i piloti. La furia di Gamal Nasser dopo la sconfitta della guerra del ’56 era lo sfondo ideologico, il sale nella bruciante ferita del ’48: il panarabismo con cui Nasser, fiancheggiato, armato, sostenuto dalla Russia sovietica ammaliava (e così è stato per decenni, anche dopo la sua morte) i paesi nati dalla divisione di Sykes Picot era la benzina da cui scaturiva la determinazione a una guerra di conquista e di annichilimento. “Preparatevi alla battaglia definitiva per la Palestina”; “l’esistenza di Israele è durata troppo a lungo. Diamo il benvenuto alla battaglia definitiva in cui distruggeremo Israele”.
“L’unico metodo che applicheremo è la guerra totale di sterminio contro i sionisti”: le radio e le promesse di soluzione finale risuonavano ovunque (quelle sopra sono alcune fra le migliaia di citazioni di quei giorni). Il fondatore dell’Olp Ahmed Shukairi diceva: “Valuto che nessun ebreo sopravviverà”. La scintilla fu un’informazione errata dei servizi segreti russi a Nasser secondo cui Israele ammassava truppe lungo il confine siriano. Non era vero, ma Nasser era ormai partito in quarta: entrò nella penisola del Sinai con le truppe e i mezzi corrazzati, mosse 15mila uomini, 100 carri armati e l’artiglieria. Il 16 maggio chiede alle forze di divisione dell’ONU di ritirarsi per lasciare campo libero all’attacco, e quelli se ne andarono. Alla fine Nasser fa la mossa che è una dichiarazione di guerra: blocca lo stretto di Tiran. Intanto vengono stretti i patti di aggressione con gli altri Paesi arabi, e Israele cerca aiuto tramite le visite di Abba Eban ministro degli Esteri ai francesi, agli inglesi, agli americani... nessuno però vuole fare una mossa che possa irritare i russi. In Israele si concepiscono addirittura piani per evacuare i bambini su navi. Si forma un governo di coalizione che concepisce un piano geniale mentre la situazione ribolle: gli uomini di Nasser in Sinai sono arrivati a 100mila, quelli siriani sul confine a 75mila e i giordani 32mila più i tank, ovunque pronti per l’invasione e soprattutto si teme l’agguerrita aviazione egiziana che preannuncia che distruggerà Tel Aviv.
E’ così che alle 7,30 di mattina del 5 giugno mentre i piloti egiziani stanno facendo colazione nelle basi, si alzano in volo centinaia di velivoli da guerra israeliani, volando a soli 15 metri di altezza e con l’ordine di non lanciare messaggi radio neppure in caso di estremo pericolo. Solo dodici resteranno a guardia del Paese in questa operazione estremamente rischiosa: ma gli aerei egiziani saranno tutti distrutti a terra, di fatto cancellando ogni prospettiva vittoriosa per gli arabi. Alle 10,35 Rabin, capo di stato maggiore annunciava incredulo lui stesso “l’aviazione egiziana ha cessato di esistere”. Il presidente Levy Eshkol e il ministro degli esteri Moshe Dayan pregarono re Hussein di tenersi fuori: ma il re per paura di Nasser non volle farlo. La fiera battaglia di Gerusalemme, in cui a Givat ha Tacmoshet gli israeliani persero tanti soldati, fu intrapresa solo dopo la decisione del re di attaccare. E certamente la riunificazione della capitale non solo di Israele ma della storia quadrimillenaria della città di Salomone, di David, il meraviglioso ritorno degli ebrei a poter toccare il Muro del Pianto, dopo tanto soffrire, dopo tanti pericoli, fu un atto di giustizia storica. Esso si è poi trasformato nel tempo anche nella possibilità per tutti i cittadini e per tutti i viaggiatori di tutte le religioni e di tutte le etnie di praticare le loro fedi liberi e senza vincoli. Sembra un sogno, che solo cinquant’anni fa era irrealizzabile, vedere nelle strade, negli ospedali, alla knesset, all’università, negli ospedali... ebrei, arabi, cristiani, condividere lo stesso spazio ciascuno libero di fare ciò che vuole mentre intorno fiorisce e si sviluppa una città moderna e accogliente.
I famosi “territori” su cui ha amato molto esercitarsi la condanna di Obama e dell’Unione Europea, sono in realtà un tema molto controverso e non ha affatto l’univoco carattere di territori occupati: prima di tutto sono occupati dopo una guerra di difesa, poi lo sono non da uno stato sovrano ma da uno stato a sua volta occupante, cioè il Regno di Giordania, poi sono stati definiti dall’ONU, salvo poi a modificare sotto spinte politiche la sua versione, territori contestati secondo la risoluzione 242 che prevede la definizione di “confini sicuri” per Israele. Come è noto Israele ogni qual volta si è sentito rassicurato ha lasciato, abbandonato, restituito territori dal Sinai a Gaza all’Aravà… non è andata benissimo, specie a Gaza, e il ripetuto rifiuto del compromesso da parte palestinese fa pensare con ragione che l’ambizione sia ancora quella espressa da Nasser con la guerra del ‘67, puntare all’eliminazione di Israele. La Guerra dei Sei Giorni ha dato a Israele un bastione di sicurezza, una base per parlamentare: occorre che dall’altra parte del tavolo ci sia qualcuno con intenzioni serie. Per ora non è successo. E se si può chiacchierare fino a domani sulle difficoltà che pone a Israele doversi occupare di questi “territori” e se si ricorda che per il 98 per cento comunque la popolazione di quelle aree è dall’accordo di Oslo sotto giurisdizione palestinese… bene, tutto questo non risolve il problema della volontà palestinese che si esprime nell’incitamento sfrenato e nel sostegno al terrorismo costante: chiudere il capitolo della presenza sionista nell’area mediorientale e a Gerusalemme. Ma questo, non avverrà.
Massimo Lomonaco: "Gerusalemme e quel confine che non c’è più"
Massimo Lomonaco
Difficile immaginare la Gerusalemme divisa degli anni fra il 1948 e il 1967. Da allora sono passati 50 anni e la capitale di Israele – che in questi giorni festeggia l’anniversario della sua riunificazione - è talmente cambiata da rendere quasi impossibile l’impresa. La storia e un incessante lavorio urbano hanno sradicato via nel corso del tempo i segni di quella divisione fatta di barriere, filo spinato, campi minati, postazioni di tiro, punti di osservazione e terra di nessuno. La divisione di Gerusalemme non è stata un ‘unicum’ nella storia politica degli stati: per citare solo l’Europa anche Vienna e Berlino, nel secondo dopoguerra, hanno conosciuto – per ben altri motivi – lo stesso destino. Ancora oggi Nicosia, nell’isola di Cipro – dopo la crisi greco-turca del 1973/4 - resta una città che vive in separazione: da una parte la popolazione greco cipriota, dall’altra quella turco cipriota. Ma, per certo, tutte queste città non sono Gerusalemme, con il suo bagaglio di storia, politica e religione: una delle più importanti realtà urbane al mondo dal valore simbolico irresistibile. Su tutti e per primi per gli ebrei.
Quanto quella divisione abbia pesato e quanto la sua riunificazione sia incardinata nella storia presente e passata di Israele, lo si può in parte comprendere percorrendo Gerusalemme alla ricerca dei segni di quei 20 anni. Prima, però, occorre avere ben salda in mente una fotografia complessiva: quella della ‘Linea Verde’ (dal colore della penna usata in quel frangente sulle carte geografiche) che, con l’armistizio del ’49, alla fine della guerra scatenata dai paesi arabi l’anno precedente contro il neonato stato ebraico, tracciò “linee di cessate il fuoco” tra Israele e i suoi vicini. Quando si usa la parola “Confini del ’67”, senza accompagnarla dal ‘pre’, si commette quindi una doppia imprecisione: non solo sono del ’49 ma non rappresentano dei ‘Confini’. Sono invece ‘Armistice Demarcation Lines’ in base alle 4 Convenzioni siglate nel febbraio e luglio del ’49 dalle parti coinvolte nel conflitto. E, per loro effetto – ripreso poi alla fine della Guerra dei Sei giorni - non costituiscono né una frontiera né un confine permanente. In base a quell’armistizio dunque nel ‘49 la Giordania tenne tutta l’attuale Cisgiordania (Giudea e Samaria) mentre l’Egitto Gaza. Gerusalemme venne divisa in due, secondo una linea che da nord a sud attraversava l’intero tratto urbano: la parte ovest ad Israele, quella ad est, compresa la Città Vecchia e tutti i luoghi sacri, sotto il controllo giordano.
Esisteva una zona ‘demilitarizzata’ ebraica a nord della città con il Monte Scopus, l’Università ebraica e l’ospedale Hadassah (che si dovette appoggiare ad una succursale ad Ein Kerem), divisa da una zona cuscinetto confinante con una area demilitarizzata giordana. Un’altra sorgeva a sud oltre il quartiere di Abu Tor, dove si insediò il Quartier generale dell’Onu. A marzo del 1950 nella parte di Gerusalemme est si installò l’Amministrazione civile giordana e il mese successivo il Parlamento di Amman ratificò l’annessione sia della città sia della Cisgiordania (atto quest’ultimo riconosciuto soltanto da Pakistan e dalla Gran Bretagna ma limitatamente alla West Bank). Nel 1953 re Hussein dichiarò infine Gerusalemme est “capitale alternativa del Regno Hashemita di Giordania” e parte “inseparabile e integrale” del paese. Con questa fotografia – oggi immaginaria ma allora realissima - si può quindi partire alla ricerca del passato. Per farlo, bisogna subito individuare il simbolo più noto di quella divisione. Lasciando alle proprie spalle la Porta di Damasco della Città Vecchia, si deve salire verso nord lungo l’attuale viale Kheil Ha Handassa.
Li’ un tempo si incrociavano Shmuel Hanavi Street e St. George Road, la via principale che allora portava da Gerusalemme a Ramallah e all’enclave ebraica del Monte Scopus. Nel maggio del 1948, in piena guerra, quell’incrocio fu teatro di un prolungato e feroce scontro tra un’unità corazzata della Legione Araba giordana che saliva dal quartiere arabo di Sheikh Jarrah verso i quartieri ebraici e un reparto Gadna dell’Haganah deciso a fermarla. Lo scontro si prolungò fino all’armistizio. In quello stesso luogo sorse, alla fine delle ostilità, ‘Mandelbaum Gate’: il ‘Checkpoint Charlie’, ricordo di Berlino, di Gerusalemme. L’unico passaggio che per 20 anni, secondo la ‘Linea Verde, ha consentito un ristretto scambio tra ovest ed est: da una parte Israele, dall’altra la Giordania. E’ stato abbattuto dopo la Guerra dei Sei giorni e il nome lo prese da un palazzetto di tre piani costruito nei pressi da Simcha Mandelbaum, a quanto pare un facoltoso commerciante. Situato in un luogo strategico quasi al limite nord della città, ultimo lembo ebraico, già negli anni delle rivolte arabe del 1929 e 1936, l’Haganah vi aveva preso posizione con l’obiettivo militare di respingere gli arabi che dalla Porta di Damasco tentavano di dirigersi verso i sobborghi di Mea Shearim e Beit Yisrael. L’armistizio - che fotografò nel 1949 lo schieramento sul campo della Legione Araba giordana e dell’esercito ebraico – certificò quell’incrocio come punto di cerniera tra le due parti della città. Lì accanto fu quindi eretta ‘Mandelbaum Gate’, non una vera e propria porta ma piuttosto una struttura in legno di 46 metri, protetta da barriere di cemento e filo spinato, che faceva da filtro tra i due settori.
L’ultima persona a transitarvi – raccontano le cronache – fu una giornalista americana poco prima della Guerra dei Sei giorni. Fino ad allora le Autorità giordane consentivano ai diplomatici, ai funzionari dell’Onu, al clero e ai giornalisti il passaggio. E solo loro potevano andare e tornare. Per tutti gli altri - a patto che non fossero israeliani o giordani – si trattava di ‘one way’: chi entrava in Israele restava nello stato ebraico e chi in Giordania era destinato a sostare nel regno Hashemita. Nel 1964 anche l’allora papa Paolo VI, in viaggio nella regione, attraversò ‘Mandelbaum Gate’ per passare dalla Giordania in Israele. I Giordani consentivano due volte al mese ad un convoglio israeliano di accedere alle zone ebraiche sul Monte Scopus. Ci vollero molte pressioni diplomatiche prima di convincere Amman a concedere ai cittadini israeliani di fede cristiana, in larga parte arabi, di passare per Natale o Pasqua per poter accedere al Santo Sepolcro e altrove. In genere i permessi, con il contagocce, erano di 24 o al massimo di 36 ore.
Ovviamente era fuori discussione che questo fosse possibile per gli ebrei israeliani: nonostante gli accordi armistiziali, in quei 20 anni la Giordania non permise mai visite al Kotel, al cimitero sul Monte degli Ulivi e alle Tombe della Valle di Kidron. Tutto questo sarebbe stato per 20 anni ‘off limits’ per gli ebrei e i Giordani – denunciò Israele – dissacrarono anche luoghi sacri ebraici. Secondo i dati storici, delle 58 sinagoghe presenti in Città Vecchia, la metà, nei 19 anni seguenti, furono abbattute o trasformate in stalle e pollai, incluse quelle di Hurva e Tiferet Yisrael. Monte Sion e la Tomba di Davide – da cui si poteva vedere in lontananza la Città Vecchia ed erano nella parte ovest – divennero così, in mancanza del Kotel, il posto alternativo dove pregare e dove i sacerdoti davano le benedizioni. La divisione non permetteva una vita normale per quanto essa fosse cercata. Teddy Kollek, sindaco storico della città dal ‘65, nella sua autobiografia racconta che la situazione era estremamente difficile: ogni volta che si imboccava una strada si poteva incappare in un cartello che ingiungeva “Stop! Pericolo! Frontiera davanti!”. Il rischio cecchini era costante specie nelle aree adiacenti alla demarcazione, come Musrara e Abu Tor. “Non c’era mese senza che qualcuno – ricorda Kollek - venisse ucciso o ferito sul confine, o colpito da una pietra lanciata dal muro”. E anche quando si protestava – dice ancora l’ex sindaco – la risposta giordana era spesso: “è impazzito un soldato”. Nel solo 1954 – riporta Simon Sebag Montefiore nella sua monumentale biografia dedicata alla città - furono 9 gli uccisi e 54 i feriti. Mezza Gerusalemme – è stato detto - era l’unico posto in Israele, a parte i kibbutz di frontiera, dove c’era una costante sensazione di guerra e di vicinanza al nemico. Interi quartieri ebraici e tantissime case vivevano a ridosso della Linea in costante rischio.
La vita quotidiana si piegava alle esigenze di una città divisa e in semi guerra permanente: non poche erano le abitazioni che la Linea Verde aveva diviso tra le due parti. Non di rado capitava che il balcone dell’appartamento si aprisse sulla terra di nessuno. Come spesso succede nelle città divise, le zone più a ridosso della demarcazione erano le più povere e le più malconce, tanto che Kollek chiese l’intervento degli aiuti statali per dare sollievo a quelle aree oramai derelitte. Per avere un’idea, anche psicologica, di quella realtà, basti pensare che Jaffa Road (dove sorgeva un muro di separazione così come a Suleiman Street), Ben Yehuda Street e King George Street non erano così lontane dalla demarcazione. Nella storia della divisione di Gerusalemme c’entra anche quella di due grandi alberghi che si fronteggiavano da una e dall’altra parte: il King David ad ovest e l’American Colony, della famiglia Usa Stafford, ad est. Ancora oggi risentono, pur senza volerlo, di una divisione che non esiste più ma che vive nell’immaginario collettivo. Quella cesura fu spazzata via dalla Guerra dei Sei Giorni a giugno del 1967 che, oltre a portare Israele in Cisgiordania, nel Sinai e sul Golan, riunificò Gerusalemme. Se nello stato ebraico le minacce arabe avevano già creato una logica di guerra, a Gerusalemme ovest la situazione in quei giorni era come sospesa.
Anche se i preparativi di difesa militare erano già cominciati con i piani di emergenza, la messa in sicurezza delle principali istituzioni (compreso il Museo di Israele), Kollek racconta di essersi crogiolato nella vana idea che almeno per allora la guerra già in corso avrebbe riguardato il Sinai. Ma il 5 giugno cambiò tutto: i colpi di mortaio della Legione Araba cominciarono a martellare la parte ovest cadendo tra l’altro nei pressi della nuova Knesset (quella vecchia era in King George), della residenza del primo ministro e altrove. Simon Sebag Montefiore scrive che gli altoparlanti del muezzin sul Monte del Tempio, la Spianata delle Mosche per i musulmani, chiamarono alla lotta: “Impugnate le armi e riprendetevi la vostra terra rubata dagli ebrei”. La controffensiva israeliana non si fece attendere: Tzahal – con Moshè Dayan, fresco ministro della Difesa e Yitzhak Rabin Capo di Stato Maggiore - prese dapprima il Monte degli Ulivi e da lì, il 7 giugno, scese verso il Giardino del Getzmani con la Città Vecchia ad un passo. “Tra un momento entreremo nell’antica città di Gerusalemme che per generazioni abbiamo sognato e per la quale ci siamo battuti. La nazione ebraica sta aspettando la nostra vittoria. Siate orgogliosi”, disse il generale Motta Gur ai suoi paracadutisti in attesa. Alle 9.45 – dopo aver fatto saltare un bus lasciato di traverso dai Giordani per ostruire l’ingresso - quegli stessi soldati si slanciarono attraverso la Porta dei Leoni. Un gruppo, guidato da Gur, salì dalla Via Dolorosa fin sul Monte del Tempio: nessuno di loro l’aveva mai visto se non in fotografia o attraverso il binocolo. “Sebbene non fossi un religioso – ha raccontato in seguito l’ufficiale dell’Intelligence Arik Akhmon che faceva parte del gruppo - penso che non ci sia stato un solo uomo che non fosse in preda all’emozione. Qualcosa di speciale era accaduto”.
Sotto c’era il Kotel. Zion Karsenti era uno di quei paracadutisti: oggi a 74 anni è un eroe di Israele. Il suo volto rapito – insieme a quello degli altri suoi commilitoni Haim Oshri e Yitzik Yifat – appare nel famoso scatto di David Rubinger, il fotografo di guerra israeliano, che ha immortalato il momento in cui entrarono nello stretto vicolo che ospitava il Muro del Pianto. “Non sapevamo come arrivarci – ha detto all’Ansa – finché un arabo non ci indicò una piccola porticina di ferro. La aprii e vidi delle scale e cominciai a scendere per primo con circospezione, attento ai cecchini. Gli altri dietro di me. Arrivai in un vicolo stretto, non sapevo dove stessi”. Ma fu solo un attimo: Karsenti e gli altri si trovarono davanti al Muro. Increduli osservavano le pietre del Kotel, senza riuscire a pronunciare parola. Poi arrivarono il rabbino Goren, Dayan, Rabin e Uzi Narkiss, il comandante della città. Il ministro della difesa-soldato strappò un pezzetto di carta di giornale e scrisse: “Possa la pace scendere sull’intera casa di Israele”. Poi lo infilò tra le fessure del Muro. Il 29 giugno Kollek – nonostante in molti l’avvertissero sulle conseguenze di un gesto ritenuto affrettato – ordinò che fossero abbattuti barriere, fili spinati, recinzioni, posti di guardia e ogni altro impedimento in città. Non successe nulla di quanto temuto. Davanti al Kotel furono rimosse le casupole e fu creato lo spiazzo di oggi. Gerusalemme, proclamò Israele, era riunificata.
Daniele Toscano: "Israele vinse la guerra ma perse la simpatia del mondo"
Daniele Toscano
La Guerra dei Sei Giorni ebbe numerosi effetti anche a livello globale. Da quel momento, le scelte delle superpotenze si indirizzarono verso precise direzioni e le conseguenze si fecero sentire a lungo raggio. Gli Stati Uniti confermarono la scelta israeliana dopo due decenni di tentennamenti (fino al 1966 avevano persino venduto armamenti ai regimi arabi moderati). Gli stessi ebrei americani, che avevano avuto posizioni contrastanti su Israele, si schierarono compatti a favore dello Stato ebraico. Il presidente americano Lyndon Johnson vedeva in Israele un alleato prezioso per i suoi scopi politici in Medio Oriente. All’indomani del conflitto plaudì al trionfo israeliano e nei mesi successivi incrementò la fornitura di armi già avviata da Kennedy. Era l’inizio di una special relationship che si sarebbe consolidata ulteriormente con la presidenza Nixon, che, eletto nel 1968, confermò questo riavvicinamento.
L’URSS era stata tra gli artefici della crescita delle tensioni nelle settimane precedenti. A maggio, aveva infatti inviato a Nasser un rapporto confidenziale in cui si affermava che gli israeliani stavano schierando truppe al confine settentrionale in vista di una guerra contro la Siria, pur non essendosi verificato alcun tipo di mobilitazione. All’indomani dello scoppio del conflitto, il Cremlino attribuì tutte le responsabilità a Israele: condannava in una dichiarazione il suo “avventurismo” e confermava il proprio sostegno ai popoli arabi. Il 9 giugno un vertice dei paesi socialisti a Mosca decise la rottura dei rapporti diplomatici con Israele. Dopo la sconfitta, l’Unione Sovietica fu rimproverata da Nasser per non aver dato un adeguato supporto: fu così messa alla prova con la richiesta di nuovi aiuti economici e militari, ai quali rispose positivamente. Alla ricerca di consensi presso il mondo arabo e più in generale presso vari Paesi asiatici e africani, Mosca ribadiva la volontà di sostenere i movimenti di liberazione e il Terzo Mondo: il nazionalismo arabo era interpretato sempre più come una ribellione contro l’imperialismo, mentre Israele era visto come il simbolo del capitalismo occidentale. Anche il continente africano fu così coinvolto dalle vicende mediorientali. Qui negli anni precedenti Israele aveva contribuito alla formazione dei reparti militari di molti Paesi (Uganda, Etiopia, Sudafrica, Costa d’Avorio, Ghana, Repubblica Democratica del Congo), si era aperto ai mercati locali e aveva condiviso con essi le tecnologie agricole dell’epoca.
La Guerra del ’67, insieme a quella del ’73, segnarono un arresto di questi processi e la rottura delle relazioni diplomatiche, che sarebbero riprese molto lentamente solo dopo la dissoluzione dell’URSS nel 1991. Si era creata infatti una solidarietà terzomondista fedele al mondo arabo: lo stesso Nasser era tra i leader dei Paesi Non Allineati. Questo ampio spettro di Paesi schierati sulle medesime posizioni portò a nuovi equilibri di forza anche in seno alle Nazioni Unite: da quel momento tutte le aree su cui era intervenuto l’esercito israeliano furono definite come Occupied Arab Territories (“territori arabi occupati”), inclusi Cisgiordania e Gaza. La Risoluzione 3379 del 1975 giunse persino a definire il sionismo una forma di razzismo. I palestinesi, che rappresentavano ufficialmente la causa per cui si impegnavano i paesi contro Israele, rimasero trascurati da tutti gli attori coinvolti e videro un peggioramento della propria condizione. E dal 1968, la loro azione contro Israele si diffuse attraverso la guerriglia, fatta di dirottamenti aerei e attentati, che avrebbero coinvolto anche numerose altre aree del mondo.
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