Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 05/07/2017, a pag. III, con il titolo "L'Isis guarda a Oriente", l'analisi di Massimo Morello.
Un gruppo di terroristi Isis nelle Filippine
Due dei più antichi regni malesi, quello del Brunei, sulla costa nord-occidentale del Borneo e quello dell’arcipelago delle Sulu, fra il Borneo e le Filippine, erano diventati entrambi dei quartieri generali di pirati…”. Così narra Alfred George Course, un capitano che negli anni Venti del secolo scorso prestò servizio con diverse compagnie di navigazione a vapore nell’Oceano indiano e nel Mar della Cina, autore di un libro che oggi si rivela prezioso: “I pirati dei mari orientali”. L’islam si era diffuso nell’area sin dal XIV secolo. Quei pirati e cacciatori di teste che assalivano le navi fingendosi pellegrini di ritorno dalla Mecca, risalivano i fiumi e saccheggiavano i villaggi, catturando gli abitanti per rivenderli come schiavi, sono gli antenati dei clan di trafficanti, dei signori della guerra, dei pirati, dei ribelli indigeni, dei criminali reincarnati in militanti che vogliono creare un wilaya, uno stato islamico, nel sud-est asiatico. Ciò che è accaduto e sta accadendo a Marawi, in altre città e villaggi dell’isola di Mindanao e negli arcipelaghi di Sulu e Jolo, territori in cui si concentra la maggioranza dei gruppi etnici musulmani delle cattolicissime Filippine, è solo l’ultima prova, la prova generale. I fratelli Omar e Abdullah Maute ne sono protagonisti e testimoni: originari della provincia di Lanao del Sur (di cui Marawi è la capitale), prima di dar nome al gruppo islamico Maute (ufficialmente denominato Khalifa Islamiyah Mindanao), erano trafficanti di droga.
La battaglia di Marawi è iniziata il 23 maggio scorso, quando i militanti di Maute hanno assaltato il municipio per opporsi ai militari che battevano la città alla ricerca di Isnilon Hapilon, leader di Abu Sayyaf, uno dei più feroci gruppi jihadisti nel sud delle Filippine, designato dall’Isis quale emiro del sud-est asiatico. Dopo i primi scontri, il presidente filippino Rodrigo Duterte ha dichiarato la legge marziale a Marawi e sull’isola di Mindanao – legge marziale confermata ieri dalla Corte suprema di Manila, a cui si erano appellati alcuni membri dell’opposizione di governo. Ma nonostante il coprifuoco deciso ventiquattr’ore più tardi, Marawi era già in mano a centinaia di uomini aderenti a diversi gruppi islamici armati: sembra quasi l’alfabeto di acronimi che li distingue voglia riprodurre la miriade di gruppi tribali che popolavano le isole nella corrente del mar di Sulu. Quegli uomini hanno fatto ciò che facevano i loro antenati: hanno messo a ferro e fuoco la città, saccheggiato, profanato le chiese, dato la caccia ai cristiani forzandoli alla conversione. Hanno fatto schiavi, per usarli come scudi umani, trasportare munizioni o i loro feriti. Come schiave del sesso.
A fine giugno, dopo quasi due mesi di combattimenti e una tregua di otto ore per festeggiare lo Eid al-Fitr, la festa che celebra la fine del Ramadan, secondo il portavoce della task force filippina, il tenente colonnello Jo-ar Herrera, la vittoria appare “irreversibile”. L’area controllata dai miliziani islamici è ridotta a meno di un chilometro quadrato e l’esercito “sta guadagnando terreno, metro dopo metro”. Per rallentare l’avanzata i miliziani sono sciamati in altre zone dell’isola, ripetendo le stesse azioni in altri barangay, i villaggi o piccole comunità, e ancora tengono in ostaggio circa 500 civili, un centinaio i cristiani, compreso un prete, che uno dei fratelli Maute ha offerto in cambio della liberazione dei suoi familiari arrestati. Nel frattempo, il totale dei morti è di circa 400: 290 terroristi, 70 soldati e 29 civili. Trecentomila circa coloro che hanno dovuto abbandonare le proprie case. Ma sono dati incerti: ogni giorno si scoprono nuovi cadaveri, molti decapitati. Vaga anche la sorte dei leader di questa battaglia: i fratelli Maute, Isnilon Hapilon e Mahmud bin Ahmad, un malese addestrato in un campo di al Qaida in Afghanistan, considerato il finanziatore dell’azione con fondi ricavati dal traffico di droga. C’è chi li dà per morti, chi ancora sul campo. Secondo altri sono scappati via mare. Seguendo le stesse rotte che hanno portato a Mindanao una “legione” di foreign fighter provenienti da medio oriente, Indonesia (i più numerosi), Malaysia, Cecenia, Singapore, India, Bangladesh, Turchia, Yemen e Marocco. Secondo molti analisti è grazie ai foreign fighter che la battaglia di Marawi si è rivelata così difficile: per il loro addestramento e per l’esperienza, specie nella preparazione di ordigni esplosivi che hanno disseminato nella città e nell’impiego di cecchini. Tanto più che i militari filippini sono addestrati al combattimento nella giungla e non sono preparati alla guerriglia urbana.
Questa, ironia della sorte, è stata resa ancor più difficile perché i terroristi si sono nascosti nei rifugi e nei tunnel costruiti dagli abitanti di Marawi per proteggersi negli scontri tra i clan o dai miliziani islamisti che da decenni colpiscono Mindanao come i tifoni. In una situazione del genere il presidente Rodrigo Duterte, contraddicendo la sua ferma politica di “Asia agli asiatici”, è stato quasi costretto ad “accettare” l’assistenza americana: sia perché le forze armate filippine vogliono mantenere stretti rapporti con gli americani, sia per necessità tecniche. Il Pentagono ha quindi fornito le armi necessarie a “elevare le capacità filippine nel contrasto al terrorismo”. Duterte ha mostrato di apprezzare di più i fucili cinesi CS/LR4A, facendosi fotografare mentre ne imbraccia uno appena arrivato da Pechino col primo carico di armi e munizioni. Ma, anche se con suo disappunto, il maggior aiuto è stato quello delle forze speciali Usa che hanno dato la loro consulenza operativa e d’intelligence. La responsabilità della crisi, infatti, è addebitata soprattutto ai servizi di Manila, che non hanno saputo prevedere ciò che era prevedibile. Secondo Sidney Jones, direttrice dell’Institute for Policy Analysis of Conflict di Jakarta, era annunciata da un anno. E già nel 2013 un centinaio di musulmani aveva giurato fedeltà all’Isis nella moschea del centro di Marawi. Lo stesso anno una fazione del Moro National Liberation Front, storico gruppo dell’irredentismo islamico di Mindanao, aveva seminato il terrore a Zamboanga, città a maggioranza cristiana nell’estremo sud-ovest dell’isola, sullo stretto che separa il Mar di Sulu dal Mare di Celebes. “Marawi deve servire da sveglia non solo al governo filippino, ma a tutti i governi dell’Asia”, ha detto Phill Hynes della Intelligence Security Solutions (Iss), società di Hong Kong che analizza rischi politici e terrorismo. “Sarebbe superficiale e ipocrita cadere nella trappola di chi etichetta l’inci - dente di Marawi come ‘contenuto’ e ‘gestibile’. E’ stato qualcosa ben più complesso di quanto ci è stato detto”.
Durante la sua inquietante relazione, presentata recentemente a Bangkok, Hynes ha definito Mindanao come la Fergana Valley del sud-est asiatico. Quella valle, incastrata tra Uzbekistan, Kyrgyzstan e Tajikistan, secoli fa era parte della Transoxiana, provincia dell’impero persiano che aveva un ruolo strategico lungo la via della seta. Oggi rappresenta un “melting pot” di gruppi militanti islamici che trovano qui le condizioni ideali di sviluppo e diffusione: terreno montagnoso, confini permeabili, instabilità politica, diseguaglianze economiche. Mindanao, quindi, ne sarebbe l’equiva - lente asiatico e oceanico, al centro del milione di chilometri quadrati dei mari di Sulu e Sulawesi, tra le coste delle Filippine, dell’Indonesia e della Malaysia (e dei corrispettivi stati del Borneo). In quelle acque passano ogni anno oltre centomila navi che trasportano 55 milioni di tonnellate di merci e 18 milioni di passeggeri. Senza contare le migliaia e migliaia di barche da pesca e di pinisi, le tradizionali barche da carico indonesiane dalla prua a scimitarra, che, oggi come secoli fa, navigano tra le isole sfuggendo a ogni controllo. Ecco perché il comandante delle forze di sicurezza dello Sabah orientale (territorio malese nel nord-est del Borneo) ha dichiarato di temere che molti terroristi possano entrare come migranti o pescatori. E’ già accaduto nel 2013 quando 200 militanti islamici di Sulu hanno “invaso” lo Sabah reclamandolo come parte di un antico sultanato.
Lo stesso gruppo Abu Sayyaf, che ha la sua base operativa nell’arcipelago di Sulu, tra le isole di Basilan e Jolo, secondo un articolo del Modern War Institute ha “una specifica connotazione marittima”, responsabile di una risorgenza della pirateria - “Oceans Beyond Piracy” elenca 129 attacchi nel 2016 – che potrebbe trasformare il Mar di Sulu in una nuova Somalia. Con la differenza che i pirati somali sono motivati “solo dal profitto”, mentre per il gruppo di Abu Sayyaf il profitto serve a finanziare il terrorismo islamico. Il sud delle Filippine, insomma, è un perfetto trampolino per la diffusione della jihad. E’ uno scenario che troppo spesso non rientra nei radar della geopolitica asiatica, focalizzati soprattutto sui teatri del Grande gioco contemporaneo: i mari della Cina e l’Oceano indiano. Ma è ben focalizzato nelle mappe presentate a Bangkok da Phill Hynes per illustrare la regionalizzazione del Califfato. Sono praticamente le stesse che nel “Southeast Asia Pilot”, indicano le rotte tra l’Australia e Singapore. E’ un atlante degli specchi in cui si riflette un possibile futuro. Il sud-est asiatico, in tutta la sua estensione potrebbe diventare la nuova frontiera dello Stato islamico. Il nome c’è già: Isil, Islamic State of Iraq and the Levant. Si sta così materializzando quel “secondo fronte” del terrorismo globale profetizzato da Rohan Gunaratna della Nanyang Technological University di Singapore, secondo cui al Qaida avrebbe cercato di espandersi in sudest asiatico per compensare la perdita delle sue basi in Iraq e medio oriente. Oggi sarebbe il Califfato a cercare nuovi territori che possano riequilibrare il parziale ritiro in Siria e Iraq. E’ la tesi degli autori del saggio “A oriente del Califfo. Il progetto dello Stato Islamico per la conquista dei musulmani non arabi” (appena pubblicato da Rosenberg & Sellier).
La “Virtualizzazione del Califfato”: così Phill Hynes definisce questo fenomeno di terrorismo transnazionale. L’epidemia del terrore, secondo l’analista dell’Iss si manifesta in diverse forme nei diversi paesi. Il Bangladesh, all’estremo ovest, funge da ponte tra il sud e il sud-est asiatico. La Malaysia è l’hub finanziario dell’Isis nella regione, mentre l’Indonesia è l’incubatore ideologico. Le Filippine sono “indiscutibilmente” il centro logistico e operativo. Ne hanno preso atto gli stessi governi in un meeting che si è svolto pochi giorni fa a Tarakan, città portuale sulla costa nordorientale del Kalimantan (stato indonesiano del Borneo), di fronte a Mindanao. Malaysia, Indonesia e Filippine hanno concordato per un comune pattugliamento marittimo. Il presidente Duterte, avrebbe voluto coinvolgere anche la marina cinese, almeno in azioni antipirateria, ma la presenza delle navi del Plan, la People’s Liberation Army Navy, nel Mar di Sulu avrebbe solo rischiato di esacerbare le tensioni tra paesi dell’area, tutti più o meno coinvolti nelle dispute territoriali sul Mar della Cina. In questo piccolo gioco dei governi locali, ognuno tenta di mimetizzare la “virtualizzazione del califfato” sul proprio territorio in un più vasto scenario geopolitico.
Secondo Indonesia e Malaysia bisogna operare un distinguo tra il conservatorismo islamico, sempre più forte in questi paesi, dal radicalismo. Anche la crescente influenza wahabita - canonizzata dalla visita di re Salman bin Abdul Aziz al-Saud nel suo recente tour in Asia - è interpretata come il segno di un conservatorismo islamico che non comporta rischi di radicalizzazione, ma li disinnesca in una miscela di finanza e cultura. Forse perché portatrice d’investimenti per miliardi di dollari. Per Marina Mahathir, figlia dell’ex primo ministro malaysiano Mahathir Mohamad è invece una forma di “colonizzazione araba”: nel modo di vestire, parlare e, soprattutto, praticare la fede. Anche la Thailandia, che pure rientra nei piani di espansione del Califfato nel sud-est asiatico, sembra voler rimuovere il problema. L’insorgenza islamica che negli ultimi 13 anni ha fatto circa 7.000 morti non dà tregua. Anzi: negli ultimi tempi sembra aver alzato il livello dello scontro. Ma per il governo thai le province dell’estremo sud a maggioranza musulmana sembrano un altrove meno rilevante dei problemi della capitale. Come se l’insorgenza islamica fosse un evento paragonabile alle cicliche inondazioni. Chi invece prende molto sul serio la minaccia islamica sono i due paesi agli estremi delle mappe del Mar di Sulu: Australia e Singapore.
L’Australia è troppo vicina alle Filippine e all’Indonesia per non sentirsi coinvolta. Tanto che ha offerto all’esercito filippino il supporto di due aerei spia per monitorare la situazione a Mindanao. Singapore si sente al centro del mirino. “Diamo per scontato che un giorno accadrà qualcosa. E stiamo facendo del nostro meglio per essere preparati”, ha dichiarato il primo ministro Lee Hsien Loong, sottolineando il fatto che lavorano sulla base del “quando” piuttosto che del “se” si verifichi un attacco terroristico. La città stato tra Oceano Indiano e Mar della Cina, proprio per la sua posizione, non è solo preoccupata da un attentato sul suo territorio – come quelli progettati contro lo Stock Exchange o il lancio di un missile da una vicina isola indonesiana contro il Marina Bay Sand Resort – ma anche dalla possibilità di diventare il punto di transito degli jihadisti nella loro migrazione a Levante. E’ per questo che il governo, noto e spesso criticato per le sue politiche di controllo sociale, sta mettendo in atto una serie di norme per far abortire ogni fenomeno di radicalizzazione: dall’obbligo di “abilitazione” per gli insegnanti di religione, alla proposta di legge contro la diffusione di fakenews, sino al sostegno fornito a chi sospetti di radicalizzazione un familiare o un amico. C’è un ultimo tassello nei progetti dell’Isil e della nebulosa dei gruppi che ne fanno parte. E’ lo stato birmano del Rakhine, conosciuto per le tragiche vicende della minoranza musulmana dei Rohingya. Potrebbe rivelarsi uno dei punti più pericolosi proprio per le violenze di cui sono stati vittime. Ciò ha determinato la formazione di gruppi armati, l’ultimo è l’Arakan Rohingya Salvation Army, che attaccano le forze governative ma anche i civili che non intendono sostenerli. Il tutto con la benedizione degli Hafiz, i mullah locali. Inoltre la situazione dei Rohingya ha innescato un fortissimo movimento di solidarietà globale che accusa il governo birmano di “pulizia etnica” e “genocidio”, mentre Aung San Suu Kyi, da eroina della libertà, è divenuta colpevole di silenzio. In questo contesto internazionale, definirsi Rohingya potrebbe rivelarsi un buon modo per attraversare molti confini. Per qualcuno è un sospetto fondato, per altri il frutto di un immaginario collettivo. Un po’ come le storie di pirati.
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