Riprendiamo dal SOLE24ORE-DOMENICA di oggi, 02/07/2017, a pag.29, con il titolo "Menorà: simbolo perduto ma presente" il commnto di Giulio Busi.
Giulio Busi
Un albero d'oro puro, lavorato al martello, carico di calici, boccioli e fiori. I fiori hanno l'aspetto di quelli del mandorlo, ricamo sottile, lavoro finissimo. La menorà è il più antico simbolo ebraico che ci sia noto. Secondo il racconto del libro biblico dell'Esodo, l'archetipo di questo misterioso manufatto, a un tempo lume e pianta, è di origine celeste. Dio stesso lo mostra a Mosè, sul Sinai, e lo illustra con la pazienza e l'abilità di un orafo superno: «Guarda ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte». Il Levitico ci dice che il candelabro a sette bracci era destinato alla tenda del convegno, e i suoi lumi ardevano dalla sera alla mattina. C'è una luce nella vegetazione, nelle piante abita una scintilla sopita, che in qualsiasi momento può trasformarsi in fuoco. Il roveto ardente è un altro, memorabile simbolo di questa presenza divina, che scende nel mondo vegetale, vi prende dimora, avvampa di fulgore. Se il roveto indica la manifestazione eccezionale del trascendente, rivolta a Mosè sull'Oreb, la menorà simboleggia la continuità della presenza e della protezione di Dio sul proprio popolo.
Nel paesaggio assolato della Terra d'Israele, il mandorlo fiorisce in febbraio, e talora persino in gennaio. Fiori impazienti, che rompono l'ostilità dell'inverno, con i loro colori precoci.
Impaziente, rassicurante, è la fiamma notturna della menorà nel Tempio di Gerusalemme, che secondo l'antica interpretazione allegorica di Filone Alessandrino e di Flavio Giuseppe allude al cielo e ai sette pianeti. Come gli astri perlustrano la volta celeste, così l'occhio del Signore scruta l'oscurità terrena, e penetra l'altro buio, ancor più segreto e profondo, quello delle coscienze. Brilla, illumina, ma può anche bruciare d'ira.
«Ecco, vedo un candelabro tutto d'oro - afferma il profeta Zaccaria nella sua visione - e due olivi stanno presso di esso... questi sono i due unti che stanno ritti davanti al Signore di tutta la terra».
La forma della menorà è ispirata all'equilibrio e alla simmetria, con i bracci laterali che si dipartono dal fusto per diffondere, e bilanciare, l'influsso del lume centrale. L'insieme è a un tempo umano e divino. È questo il segreto ultimo del candelabro, l'insegnamento a cui tendono gli esegeti antichi, e i mistici ebrei dell'età di mezzo.
Per i cabbalisti sefarditi, la contemplazione della menorà è un modo per sperimentare l'unione dei gradi divini, quel dissolversi delle differenze e delle contraddizioni del mondo fenomenico nella grande, unica energia che precede la creazione, e la sostiene. Come ben indica il testo biblico, la menorà dev'essere forgiata con un pezzo unico d'oro. Senza giunture né mancanze, per significare l'unità nella molteplicità. Il tempo scorre, gli astri salgono in cielo per poi declinare. I fiori sbocciano, per spegnersi ed avvizzire.
I lumi della menorah restano invece vigili, splendidi, non possono venire mai separati gli uni dagli altri. E poco importa che il candelabro del Tempio, dopo la disfatta del 70 d.C., sia stato catturato dai vincitori, esotico bottino di conquista. Quello scolpito sull'Arco di Tito, a Roma, a ornamento del trionfo dei reduci dalla battaglia di Gerusalemme, è solo un oggetto umano, seppur suntuoso, pesante, regale.
Di ingenti dimensioni, poggiata su di un doppio basamento esagonale, la menorà è condotta in processione da soldati cinti di lauro. I portatori paiono procedere con fatica, sotto quel carico di metallo prezioso. È come se il peso si fosse moltiplicato a dismisura con la profanazione.
Tolto dalla sua sede originaria, il grande manufatto sacro ha perso la sua funzione. Ora è un mirabolante, inerte, spento relitto. Il candelabro interiore, la menorà di parole, di preghiere, di speranze, che è restata accesa nei due millenni d'esilio e ancora brucia, non può essere depredata, sottratta, distrutta.
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