Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 30/06/2017, a pag.11,con il titolo "A Neot Smadar, lampi di vita condivisa", il reportage di Luca Foschi.
Veduta del kibbutz Neot Smadar
Luca Foschi descrive la vita nel kibbutz Smadar, Avvenire lo classifica 'reportage', a cui andrebbe aggiunto, per chiarire l'obiettivo del cronista, " detesto Israele, vediamo se riesco a raccontarlo senza darlo troppo a vedere". Con i lettori di Avvenire ci riuscirà senz'altro, abituati come sono a considerare Israele sotto i riflettori del pregiudizio e della menzogna. In questo, Foschi è indubbiamente abile.
La scelta delle parole è rivelatrice: "l'abbandono di Gerusalemme" (perchè proprio abbandono?), "le camionette (termine militare), " il breve novecento si spegneva insieme all'utopia socialista del kibbutz"( perchè spegneva e non si trasformava?), "il rito del silenzio" (scambia il kibbutz per un monastero?), "l'uso dell'acqua, altrove sottratta ai bacini palestinesi" (non poteva mancare l'orrida menzogna), "Agli abitanti si aggiungono pochi salariati e un numero variabile di volontari, giovani occidentali e israeliani in fuga dalle ansie metropolitane e dal lungo servizio militare, università di nazionalismo spartano dove si apprende la koinè binaria di odio e paura, l'io e l'altro separati dal corpo a corpo dei check-point. Alle nove pochi colpi di gong chiamano la comunità per la severa colazione vegetariana. E vietato parlare se non per poche sillabe " (questa la citiamo integralmente)," È stata la guerra del 1967 a creare queste perversioni. Ha cambiato la nazione, l'orrore subito in passato si è trasformato in aggressione verso gli altri "(anche questa la citiamo integralmente), a conclusione "dal ventre del deserto sale la cupa lingua delle bombe"
E' questo il kibbutz raccontato dal cronista di Avvenire. Totò avrebbe detto 'che sckifezza!"
Luca Foschi
Nel buio si sente solo un gallo in lontananza, e i passeri nella grande sala da pranzo che frullano intorno al lampadario da cui pende la sagoma di un pipistrello, ritagliato su carta nera e sapientemente incongrua Alcuni fissano le evoluzioni del fumo che esce dalle tarleditè, altrispaziano sui quaranta compagni di silenzio, arrivati al centro del kibbutz a piedi o sulle biciclette fra ulivi, meli e palmizi. Intorno, oltre i cancelli accuratamente chiusi la sera, è il deserto del Negev dove Israele si affila come un'amigdala. Hanno abbandonato Gerusalemme sul finire degli anni 80 gli abitanti di Neot Semadar, attraversato sulle camionette cariche di utensili il giardino agricolo delle pianure costiere, lo spettacolo cangiante del Mar Morto e la roccia marziana del deserto. Allora le lunghe tensioni esplodevano nella Prima Intifada e il breve Novecento si spegneva assieme all'utopia socialista che tanti kibbutz aveva ispirato Cento anni prima, quando gli ebrei
fuggiti dall'Europa piantavano nelle terre incolte i principi del sionismo. Dopo il rito del silenzio la comunità si disperde per i luoghi di lavoro, l'allevamento, i piccoli stabilimenti per le produzioni biologiche, le coltivazioni irrigate da un complesso sistema di gestione che riduce al minimo l'uso dell'acqua, altrove sottratta ai bacini palestinesi. Agli abitanti si aggiungono pochi salariati e un numero variabile di volontari, giovani occidentali e israeliani in fuga dalle ansie metropolitane e dal lungo servizio militare, università di nazionalismo spartano dove si apprende la koinè binaria di odio e paura, l'io e l'altro separati dal corpo a corpo dei check-point. Alle nove pochi colpi di gong chiamano la comunità per la severa colazione vegetariana. E vietato parlare se non per poche sillabe al passato delle cose. Tutti si ritrovano poi nella piccola piazza, seduti all'ombra degli ulivi. «Un giorno è una settimana e una settimana è un giorno. Spezziamo di continuo la linea del tempo col dialogo. Se mi annoio? Le persone sono infinite», dice Gallia mentre culla il piccolo Kadim fra le braccia. ex insegnante, per ora si dedica alla maternità. Potrebbe poi avere un ruolo nelle scuole del Kibbutz, dove fanno lezione «tutti coloro che sentono l'educazione». Non si ricevono salari a Neot Semadar. Per qualsiasi spesa, un vista d'emergenza, un oggetto necessario, bisogna fare domanda e il denaro viene estratto dal fondo comune. Fin dalla nascita il kibbutz vive nella parsimonia, che si manifesta nell'incompiuto delle strutture, nel cimitero del ferro dove si recupera il possibile. «Accettiamo qualsiasi confessione, anche se manteniamo le festività ebraiche. Ma non ci sono filosofie per spiegare Neot Semadar. È una cosa viva e per questo riesce difficile descriverla. Cerchiamo di restare sensibili al reale, alla natura, evitando di dare troppo peso alle nostre opinioni. Siamo un nucleo di persone che sentono il problema del vivere, e questo può essere sciolto nella religione e in altre pratiche spirituali, purché queste mantengano un dialogo costante» spiega Samuel, fra i fondatori e oggi responsabile della cantina. Il mondo è confinato in un televisore e i telefoni rimangono in stanza. Ma la storia preme anche sul deserto, e dal kibbutz si sentono le esplosioni di Shizafon, centro d'esercitazione dell'esercito: «Prima mi addentravo di più nelle cose politiche, destra e sinistra» racconta Samuel. «Ora vedo che alcuni si identificano con conflitto e conquista, altri lottano per eliminarne il desiderio. È stata la guerra del 1967 a creare queste perversioni. Ha cambiato la navone, l'orrore subito in passato si è trasformato in aggressione verso gli altri». II gong che richiama al pranzo si allarga insieme al rumore sordo dei carrarmati e rende ancor più bizzarra la solitudine del centro culturale, rosa, azzurro e irrispettoso dell'austerità desertica, kitsch e fiabesco, una gigantesca torta di cemento, plastiche e lamiere portata a termine nel 2010, simbolo della quotidiana fatica collettiva trasfigurata in immagine onirica. I laboratori di tessuti, legno e ceramiche hanno dato vita al piccolo museo dove monili, quadri e oggetti d'uso casalingo raccontano la natura e l'essere in relazione. «Non nascono dalla vanità o dal commercio», dice delle sue sculture il carpentiere Maeil Ganour. Le anime di legno si contorcono in genesi bibliche, in zuffe erotiche e violente o abbandoni nello spazio: «Bisogna pensare a lungo per raggiungere ciò che tutti sanno, illuminare nella forma un'esperienza condivisa». Dopo cena la piazza si accende fioca con le lampade colorate, riprende il rito dell'incontro. «Le persone litigano, i problemi esistono. Non mi sento limitato, non credo che in una metropoli il circuito del conoscere sia molto più ampio, e qui il mondo viene a trovarci» dice Eylat, 33 anni da New York a Neot Semadar da tre anni. «Il venerdl balliamo il magal. Vestite di bianco le persone si dispongono in cerchia Una prende il centro e si muove, danza libera. Intorno gli altri la imitano. Èun teatro collettivo, il contatto degli occhi e dei corpi, la comunità che s'intreccia e si riconosce», spiega Eylat, mentre la piazza si vuota e dal ventre del deserto sale la cupa lingua delle bombe.
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