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Panorama Rassegna Stampa
29.06.2017 Mattia Ferraresi attacca Jared Kushner e Donald Trump
con un linguaggio peggiore del NYT

Testata: Panorama
Data: 29 giugno 2017
Pagina: 24
Autore: Mattia Ferraresi
Titolo: «Kushner, il genero in capo della Casa Bianca»

Riprendiamo da PANORAMA di oggi, 29/06/2017, a pag. 24, con il titolo "Kushner, il genero in capo della Casa Bianca", il commento di Mattia Ferraresi.

L'articolo di Mattia Ferraresi è colmo di ostilità verso Jared Kushner e Donald Trump. Secondo Ferraresi Kushner avrebbe sbagliato a fare richieste ad Abu Mazen, per esempio quella di condannare gli attentati palestinesi contro israeliani. Nella seconda parte del pezzo, invece, Ferraresi riprende le voci di corridoio sui presunti legami tra Trump e il regime russo, senza scrivere però che tutto questo deve ancora essere provato. Nel complesso, dunque, un pessimo articolo che disinforma sulle politiche di Trump. Ferraresi attacca il genero, e con lui il Presidente degli Stati Uniti.

Ecco l'articolo:

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Mattia Ferraresi

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Jared Kushner con Donald Trump

Per Donald Trump la soluzione a ogni problema ha un'unico volto: Jared Kushner. L'onnipresente genero del presidente si muove su tutti i fronti e ha libertà di manovra su pressoché qualunque dossier, dalla politica estera ai rapporti con i colossi della Silicon Valley fino ai negoziati con il Congresso per la revoca dell'Obamacare. Non c'è affare della Casa Bianca che non lo riguardi e riunione nella quale non abbia un posto riservato a fianco del presidente. Un giorno è con gli anfibi e il giubbotto antiproiettile in missione in Irak, il giorno dopo introduce il summit della tecnologia alla Casa Bianca, quello successivo si trasforma in un avvocato delle energie rinnovabili (l'uscita dall'accordo di Parigi sul clima è, finora, l'unica sconfitta da lui subita).

Qualcuno l'ha soprannominato «il segretario di qualunque cosa». Fra l'altro, il marito di Ivanka, 36 anni, è l'emissario informale di Trump per i rapporti fra Israele e Palestina, e nel primo viaggio presidenziale si era fatto notare per i rapporti amichevoli con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Ebreo ortodosso di una famiglia di facoltosi immobiliaristi del New Jersey, Kushner dà consigli a Trump sui rapporti con la comunità ebraica dall'inizio della campagna elettorale. Il 21 giugno il presidente l'ha mandato, con l'inviato speciale per il Medio Oriente Jonathan Greenblatt, a Gerusalemme e Ramallah per dare seguito ai dialoghi sul processo di pace. Se a casa Netanyahu le cose non potevano essere più cordiali e amichevoli, nell'incontro con Abu Mazen tutto è rapidamente precipitato, tanto che si sono diffuse subito le voci, smentite a livello ufficiale, che il presidente stia pensando di rinunciare alla mediazione nel processo di pace. «Ce la faremo» aveva dichiarato Trump alla Casa Bianca accanto ad Abu Mazen. I toni sono cambiati nel giro di poche settimane. Il leader dell'Autorità nazionale palestinese non ha gradito che Kushner gli abbia presentato una serie di richieste perfettamente in linea con quelle del governo israeliano. Ancor meno ha gradito che il genero-in-chief lo rimproverasse per non aver condannato un recente attentato a Gerusalemme e per essersi rifiutato di incontrare David Friedman, il nuovo ambasciatore Usa in Israele (che in passato aveva sostenuto l'espansione degli insediamenti israeliani).

I funzionari palestinesi hanno fatto sapere che l'incontro è stato «enormemente deludente» e che Kushner si è comportato più come avvocato delle posizioni di Israele che come arbitro della disputa. Un esordio non proprio esaltante... Trump, del resto, finora aveva tenuto posizioni ambigue sul processo di pace. Prima aveva promesso di sostenere l'espansione delle colonie israeliane e di trasferire l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, poi ha dovuto far marcia indietro per potersi sedere al tavolo delle trattative. Trump si fregia di essere un «artista del negoziato», ma per negoziare bisogna incontrarsi. E se nel suo viaggio ha aperto la strada per il dialogo, a Kushner ha poi affidato il compito di proseguire l'opera.

È questo il ruolo del genero tuttofare: trasformare in realtà le iperboliche idee di Trump usando le arti della discrezione e del silenzio mediatico di cui il presidente è drammaticamente a corto. Kushner non twitta, non dà interviste, usa Instagram più per le foto con moglie e figli che per i messaggi politici (ma pure la rappresentazione della «power couple» che fa jogging è un messaggio politico). Se c'è una missione da condurre a fari spenti, assai probabile che spetti all'uomo per cui Donald nutre una fiducia sconfinata. Era stato Kushner, prima dell'insediamento alla Casa Bianca, ad avvicinare l'ambasciatore russo, Sergei Kislyak, per stabilire un canale di comunicazione parallelo con il Cremlino. Ed era stato sempre Kushner, nello stesso periodo, a incontrare a New York Sergei Gorkov, il capo dell'istituto di credito russo Vnesheconombank (più che una banca nel senso convenzionale del termine, è il portafogli del Cremlino, tanto che il chairman è nominato direttamente da Vladimir Putin). Il Washington Post ha rivelato di recente un'altra connessione potenzialmente pericolosa che lega Kushner a Mosca. Un mese prima delle elezioni, il genero di Trump aveva ottenuto da Deutsche Bank un prestito da 285 milioni di dollari per rifinanziare un suo progetto immobiliare di Manhattan, proprio nel momento in cui la banca tedesca stava faticosamente negoziando con la procura di New York un patteggiamento per due casi di riciclaggio con la Russia. Dopo l'affare con Kushner, la trattativa di Deutsche Bank si è d'improvviso conclusa, con soddisfazione della banca. Per questi e altri episodi, Kushner è sotto l'occhio vigile di Robert Mueller, il procuratore speciale che sta indagando sui collegamenti fra l'entourage di Trump e il Cremlino.

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