Perché Trump lavora per la pace in Medio Oriente
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: Donald Trump con la coalizione sunnita a Riad
Cari amici,
non tutti si sono resi conto di com’è cambiata la situazione intorno al negoziato di pace fra Israele e l’Autorità Palestinese da quando Trump è diventato presidente. L’AP negli ultimi anni ha sempre usato i negoziati, le loro riprese e sospensioni, da un lato come un mezzo per estorcere concessioni e cioè ottenere la scarcerazione di terroristi condannati, la sospensione delle costruzioni negli insediamenti ebraici nelle zone della Giudea e Samaria che gli accordi di Oslo hanno affidato all’amministrazione israeliana, per avere finanziamenti, permessi di costruzione e privilegi vari; dall’altro come supporto tecnico per continuare la guerra di propaganda contro Israele. Abbas non ha mai presentato un piano di pace, non ha mai dato una risposta definitiva a quelli presentati da Israele, non ha mai preso impegni: solo richiesto “precondizioni” e “gesti di buona volontà” e ha badato bene a non entrare davvero in una logica negoziale. Questo modo di fare, profondamente contrario alla prospettiva di una pace vera, si può anzi definire continuazione della guerra di attrito con altri mezzi. I presidenti degli Stati Uniti e i loro segretari di stato, mediatori principe in questa infinita non-trattativa, hanno spesso mostrato segni di imbarazzo per la slealtà negoziale dei palestinisti: basta pensare a ciò che il presidente Bill Clinton scrisse sulle trattative di Camp David fra Barak e Arafat (http://www.jewishvirtuallibrary.org/president-clinton-reflects-on-2000-camp-david-summit), fallite per colpa dell’ostinata indisponibilità di quest’ultimo (https://www.theguardian.com/world/2002/may/23/israel3). Obama (con Kerry) invece ha appoggiato sistematicamente le pretese revansciste e la tattica dilatoria dell’Autorità Palestinese, arrivando a dare la colpa a Israele quando esso rifiutava di fare concessioni in cambio di nulla (http://www.jns.org/latest-articles/2017/3/3/peace-talks-failed-because-palestinians-demanded-endless-concessions-israeli-negotiator-says#.WVEO6GjyjIU), il che naturalmente ha reso ancora più impermeabili alle trattative vere i palestinisti.
Ora però le cose sono cambiate. Già nell’incontro diretto a Betlemme, Trump fece una scenata ad Abbas perché costui non aveva mantenuto gli impegni presi a Washington di abbandonare l’incitamento al terrorismo (http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/israel-donald-trump-palestinian-authority-mahmoud-abbas-outburst-incitement-bethlehem-a7761856.html). Ora Abbas ha tradito un altro impegno, quello di smettere di finanziare i terroristi, anzi ha cercato dei canali indirettri come le Ong (http://www.israelhayom.com/site/newsletter_article.php?id=43323) o addirittura la Croce Rossa (https://www.breakingisraelnews.com/90168/pa-using-red-cross-pay-terrorists/#Axwv2REWQ2TByfig.97) per continuare a finanziare i terroristi condannati e le loro famiglie (secondo un tariffario proporzionale alla gravità dei reati commessi) con i fondi di assistenza ricevuti dagli Usa e dall’Europa.
Durante l’ultimo incontro, la settimana scorsa a Ramallah, fra Abbas e la delegazione americana guidata da Jared Kushner, genero e potente consigliere del presidente, Abbas ha di nuovo traccheggiato sui suoi impegni, provocando una reazione durissima da parte americana (http://www.jewishpress.com/news/us-news/washington-saying-ramallah-isnt-giving-peace-a-chance/2017/06/24/). Kushner avrebbe in sostanza minacciato Abbas dell’abbandono americano dei negoziati di pace (http://www.jpost.com/Arab-Israeli-Conflict/Trump-may-exit-out-of-Peace-talks-after-tense-KushnerAbbas-meeting-497795). E dato che il teatrino delle trattative serve soprattutto all'autorità palestinese per legittimarsi, si tratta di una minaccia molto seria che ha lasciato Abbas "furioso" (http://www.alternet.org/right-wing/jared-kushners-meeting-mahmoud-abbas-went-so-badly-trump-reportedly-considering-pulling). Anche perché nel frattempo i rapporti fra Israele e la Casa Bianca di Trump (non necessariamente di diplomatici e militari americani ancora legati alla vecchia amministrazione) vanno molto bene, tanto che si è stabilito un coordinamento per il problema delle costruzioni negli insediamenti in Giudea e Samaria (http://fr.timesofisrael.com/liberman-a-un-evenement-du-toi-israel-coordonne-la-construction-dans-les-implantations-avec-les-usa/).
Un'ultima avvertenza: il ridimensionamento dell'appoggio americano alle pretese palestiniste non è affatto una brutta notizia per la pace, anzi. I fatti mostrano che le offensive terroristiche diminuiscono non nel momento in cui i terroristi nutrono speranze di ottenere risultati, ma proprio quando non hanno speranze come mostrano questi articoli molto documentati: https://besacenter.org/perspectives-papers/palestinians-hopeless-terror-declines-hopeful-terrorism-increases/, https://besacenter.org/wp-content/uploads/2017/06/498-When-Palestinians-are-Hopeless-Frisch-final-1.pdf. In generale, solo quando i dirigenti dell'Autorità Palestinese e di Hamas perderanno la speranza di scacciare gli ebrei da Israele, e magari di sterminarli (certo non da soli, ma con l'aiuto del mondo islamico e della "comunità internazionale"), solo allora inizieranno a discutere seriamente sulla loro sistemazione. Fin che mantengono la speranza di impadronirsi prima o poi di Israele, ogni trattativa di pace sarà inutile perché impossibile. Ecco perché Trump, togliendo la complicità americana alle sceneggiate di Abbas, lavora per la pace.
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