Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/06/2017, a pag. III, con il titolo "Cosa vuole Erdogan dall'Ue", l'analisi di Eugenio Cau.
Eugenio Cau
Il sultano Erdogan
Kahramanmaras, Turchia. La prima cosa che si vede quando ci si avvicina al campo per rifugiati di Kahramanmaras, nel sud-est della Turchia, è l’enorme terrapieno circondato da reti con il filo spinato. Dietro le reti si stagliano le torrette di vedetta. Poi la polizia, i cancelli, e le gigantografie di Recep Tayyip Erdogan, il presidente della Turchia. Alcune sono le foto classiche che si vedono in tutte le città turche. Erdogan con entrambe le mani alzate, Erdogan che guarda l’orizzonte, Erdogan e la first lady che salutano la folla. Sono photoshoppate alla buona di fianco a foto di bambini siriani disperati e a scene di povertà. Erdogan è salvifico e amorevole. Solo dopo vedi i profughi, in buona parte siriani, in minoranza iracheni. In realtà sono loro che guardano te. Quando i due grossi autobus condizionati pieni di giornalisti internazionali entrano nel campo la gente si ferma e ti guarda. Non che sia stupita. Il governo turco ha organizzato oltre quaranta viaggi di questo tipo negli ultimi due anni, per portare la stampa internazionale a vedere questo e altri campi. Enormi mandrie di giornalisti trasportate nel sud-est della Turchia a visitare i campi profughi in cui sono ospitati centinaia di migliaia di uomini e donne fuggiti dalle guerre siriana e irachena, fuggiti dal regime di Bashar el Assad e dallo Stato islamico. E’ un modo frustrante di entrare nei campi, ma è praticamente l’unico.
I giornalisti hanno bisogno di avere accesso ai luoghi in cui sono i rifugiati, e il governo ha bisogno di veicolare i suoi messaggi, che sono principalmente tre. Uno, la Turchia è il paese più generoso del mondo, portiamo in giro apposta voi giornalisti. Due, la Turchia spende quantità immani di denaro in questa sua opera disinteressata di generosità. Tre, la comunità internazionale ci ha promesso aiuto ma in realtà non fa niente per la Turchia. Dei fondi annunciati è arrivata qualche briciola. E l’Europa è più colpevole di chiunque altro. Per molti versi, la Turchia potrebbe essere davvero il paese più generoso del mondo. Secondo i numeri forniti dal governo, Ankara ha ospitato a partire dal 2011 3,5 milioni di rifugiati, in gran parte siriani. Di questi 3,5 milioni, solo l’8,9 per cento vive in campi come quello di Kahramanmaras. Il resto vive come può nelle città turche, 500 mila a Istanbul e gli altri sparsi per il resto del paese, a volte lavorando, spesso facendo affidamento sul welfare dello stato turco. Quello di Kahramanmaras è un campo modello, come quello di Osmaniye e gli altri che il governo turco è orgoglioso di usare come vetrina dei suoi sforzi. Dentro ai container ci sono il bagno, la cucina, perfino la lavatrice. Nel campo ci sono moschee, centri sportivi, scuole. Ma i rifugiati, specie i bambini, sono quasi tutti in strada. Fanno due-tre ore al giorno in classe, il resto fuori. A scuola ci sono gli insegnanti.
Nei campi per rifugiati siriani in Turchia, il corpo docente è diviso tra maestri siriani, la maggior parte, e maestri turchi. I turchi (ragazzi e ragazze giovani, queste ultime tutte senza velo) insegnano ai bambini solo lingua e cultura della Turchia. I siriani (tutti maschi) fanno il resto, in arabo. Un gruppo di sei maestri siriani, quasi tutti provenienti dalla zona di Idlib, è radunato in una saletta con aria condizionata nella scuola media di Kahramanmaras. Gli chiediamo cosa insegnano, e loro rispondono: tutto tranne il turco. Gli chiediamo se intendono tornare in Siria quando ci sarà la pace, e loro rispondono: “Inshallah”. Ma per ora sarebbe meglio dirigersi dall’altra parte, verso l’Europa. Gli chiediamo se hanno piani per il futuro: “No plan”. E poi: “No future”. E poi: “No visa, no future”. Dove visa, ovviamente, è il visto per uscire dalla Turchia. Ali è siriano, dimostra una cinquantina d’anni e viene da Hama. Vive nel campo di Kahramanmaras da un paio d’anni. Ci mostra un’ampia ustione su tutto il braccio sinistro. Dice che l’ustione si estende su gran parte del corpo, ma non vuole farcela vedere sotto la polo azzurra. Gli chiediamo se abbia subìto l’ustione durante un bombardamento, ma lui ci dice qualcosa di peggio: “Acid”, e poi: “Daesh”, indicando lo Stato islamico con il suo acronimo arabo. Gli chiediamo cosa vorrebbe fare adesso, dove vorrebbe andare, e lui dice “Siria”.
Inshallah, ovviamente. Ma per ora non si può, per tornare serve la pace, e Ali è bloccato nel campo. Mohammed viene da Idlib e parla un francese perfetto. In Siria era un insegnante e un traduttore, ma dopo la fuga dal paese non ha più trovato lavoro. Ha due figlie femmine e tre figli maschi, ed è bloccato nel campo. Vorrebbe andare a Istanbul e fare la guida turistica, con il suo francese potrebbe, ma non ha soldi per trasferirsi: “Pas d’argent”, dice. Il suo obiettivo finale è trasferirsi in Canada, come vorrebbe fare anche Amina, signora velata dal viso rugoso, i cui due figli hanno ottenuto asilo in Canada. Lei però non è stata accettata, è rimasta bloccata nel campo. “Il Canada non vuole parlare con me, dice”. Chahrazade è stata più fortunata. Ha ottenuto il visto per la Francia, partirà tra un mese, ha un sorriso che va da orecchio a orecchio. Non parla una sillaba di francese ma imparerà, dice. I siriani nei campi per rifugiati in Turchia esprimono spesso la sensazione di essere bloccati. Non che siano prigionieri, su questo il governo turco è chiaro: i siriani possono uscire dai campi quando e come vogliono, possono andarsene e trasferirsi nelle città della Turchia, possono perfino andare in un paese terzo se lo desiderano (e se hanno i documenti per farlo: no visa no future). Le alte reti dei campi per rifugiati, il filo spinato dappertutto, le torrette di vedetta hanno l’unica funzione di proteggere i siriani dai pericoli esterni, dicono i turchi, che però impongono orari fissi di coprifuoco e approntano rigidi controlli di sicurezza tali per cui, per esempio nel campo di Osmaniye, la mattina si formano lunghe file di uomini che cercano di uscire per andare a lavorare o cercare un impiego nella città più vicina. Ma appunto, la maggior parte dei rifugiati siriani nei campi non ha i soldi o le forze per andarsene e resta bloccata in un limbo pulito, funzionale e ben tenuto, ma pur sempre un limbo.
I rifugiati siriani nei campi in Turchia hanno tutto il necessario per vivere, tranne un senso di scopo. La Turchia ha molto interesse a mostrarsi come il paese più generoso del mondo. Mehmet Halis Bilden, direttore generale dell’Afad, la protezione civile turca, lo ripete incessantemente. Ogni suo intervento è un continuo snocciolare di cifre che intendono dimostrare lo sforzo turco: 25 miliardi di dollari “del nostro budget” spesi in cinque anni per i rifugiati, 23 campi costruiti in Turchia e 11 costruiti in territorio siriano, nella zona di confine occupata dall’esercito turco durante l’operazione Scudo dell’Eufrate. 25 milioni di visite mediche, 900 mila operazioni chirurgiche, mezzo milione di studenti che riceve un’educazione, e così via. Ma se la Turchia vuole essere il paese più generoso del mondo, a sentire i turchi l’Europa è il continente meno generoso di tutti. Nel marzo dell’anno scorso, disperata per l’avanzata della più grande crisi migratoria del decennio, l’Europa ha stipulato con la Turchia un accordo da sei miliardi di dollari, tre miliardi subito e tre successivi. In cambio, Ankara ha prosciugato la rotta dei Balcani che stava destabilizzando l’intero continente. Dopo l’accordo, praticamente nessun siriano è arrivato in Germania o in Svezia transitando via terra, e ne abbiamo visto gli effetti. L’Europa sembrava rotta, con gli stati che tornavano a chiudere le frontiere e il populismo che ruggiva fortissimo in quasi tutte le capitali. Oggi invece una parte importante della rinnovata stabilità europea viene dalla chiusura della rotta dei Balcani. I rappresentanti del governo turco lo dicono in continuazione, in pubblico e ai giornalisti: noi abbiamo fatto la nostra parte, i risultati sono tangibili e positivi, ma voi non avete ancora fatto la vostra. Della tranche dei primi tre miliardi di euro promessi, solo 1,4 sono arrivati, dice il capo dell’Afad. Gli altri 1,6 sono lontanissimi, persi in negoziati che si dilungano a dismisura, mentre la seconda tranche da tre miliardi sembra irraggiungibile.
Eppure, sembrano dire i turchi, sei miliardi di euro non è un prezzo così grande per la stabilità politica di un intero continente. E qui arriva la ragione – ovviamente implicita – delle dichiarazioni, delle interviste, delle visite ai campi di rifugiati siriani. Se voi europei oggi vi godete la rinascita del sentimento comunitario, la sconfitta dei movimenti populisti che prosperavano sull’emergenza migratoria, i vostri Macron e le vostre Merkel, è perché noi turchi abbiamo sigillato la rotta dei Balcani con efficienza brutale. Ma la ricompensa che avevamo pattuito non è mai arrivata. Tre milioni e mezzo di persone che entrano in un solo paese, per quanto ampio, è una cifra impressionante. Per molto meno, l’Europa è stata colpita da una crisi che per un momento è sembrata esiziale. Questo i turchi lo rivendicano: “Noi non siamo un paese europeo che va in crisi isterica e indice referendum per 300 migranti”, dice sprezzante Mehmet Halis Bilden, il capo della protezione civile turca, ricordando a tutti quali effetti potrebbe avere la riapertura della rotta dei Balcani. Nonostante questo, nei primi anni della politica di “porte aperte”, come è definita dal governo, i flussi di rifugiati siriani hanno creato enormi frizioni nella zona di confine.
A Gaziantep e in molte città turche a sud del paese, vicino alla Siria, la popolazione dei siriani ha presto superato in numero la popolazione dei locali, facendo precipitare i salari, riducendo i posti di lavoro disponibili e generando malcontento tra i turchi. Sono serviti provvedimenti speciali del governo, che ha offerto incentivi economici alle zone più interessate dalla crisi migratoria, per alleviare la situazione. E’ servita anche una propaganda martellante sulla fratellanza tra il popolo siriano e quello turco, sulla generosità monumentale di Ankara e soprattutto sui complotti e la malevolenza dell’occidente corrotto. A Sanliurfa, città del sud-est, venerdì scorso il presidente Erdogan ha tenuto un discorso di Iftar (la fine del digiuno diurno per il Ramadan) nel campo per rifugiati locale, davanti a una massa di siriani e turchi accorsi per l’occasione. Misure di sicurezza eccezionali: tre elicotteri militari, mezzi blindati, infinite volanti della polizia, tutte le strade chiuse nel giro di almeno un chilometro, molteplici blocchi militari e di polizia per arrivare al palco. Il dispiegamento è stato marziale e sgangherato al tempo stesso, tanto che alla fine la folla di giornalisti e astanti si è fiondata su Erdogan con una foga non prevista. Sul palco, i temi della retorica erdoganiana si sono sviluppati tutti, e l’insistenza sulla crudeltà dell’occidente è stata più viva che mai. Per gli occidentali “una goccia di petrolio vale più di una goccia di sangue del popolo siriano”, ha detto Erdogan.
La crisi migratoria è stata uno storico “test di umanità”, e l’occidente l’ha fallito. La conseguenza di questo discorso, ovviamente, è che al contrario nostro la Turchia avrebbe superato in maniera eccezionale il test d’umanità rappresentato dall’afflusso di 3,5 milioni di migranti. I campi per rifugiati, innegabilmente ordinati e dignitosi, sono lì a dimostrarlo. E’ ai campi che il governo turco vuole portare i giornalisti, è lì che Erdogan ha ospitato l’ultima visita della cancelliera tedesca Angela Merkel e dei leader europei, l’anno scorso. Ma i campi sono anche la grande contraddizione delle politiche migratorie della Turchia. Nel mare magnum di 3,5 milioni di migranti, i 247 mila siriani e iracheni che vivono nei container del governo sono appena una goccia. Le loro condizioni di vita non sono rappresentative. Quasi tutti i rifugiati, oltre il 90 per cento del totale, vivono fuori dai campi una vita più autonoma, fuori dai riflettori dei media e dall’occhio delle torrette di guardia che sorvegliano i loro compatrioti nei container di Ankara. E’ questo il dato fondamentale che consente di capire che i campi per rifugiati del governo turco sono anche una dimostrazione d’intenti e una giustificazione politica. Certo, sono uno sforzo solidale notevole. Inoltre sono ben realizzati e offrono condizioni di vita ben più che accettabili a centinaia di migliaia di persone. Ma intorno a questi 247 mila siriani e iracheni il governo turco ha costruito un apparato retorico e propagandistico che poco ha a che vedere con la solidarietà e la fratellanza. Questo apparato retorico, ovviamente, è legato a doppio filo con l’accordo economico stipulato con l'Unione europea.
Le tempistiche sembrano confermarlo, visto che i campi per rifugiati così come sono oggi in Turchia, lindi e ordinati e fatti di container, hanno sostituito le tendopoli soltanto nell’ultimo anno, quasi tutti negli ultimi sei mesi. Ankara ha speso cifre enormi per la loro costruzione, e continua a spendere cifre enormi per il loro mantenimento, anche se questo riguarda una percentuale limitata dei rifugiati presenti sul territorio turco. Ma se Ankara intende sostenere la tesi che la Turchia è lo stato più generoso del mondo, non basta snocciolare soltanto le cifre. 3,5 milioni di rifugiati sono un numero enorme, ma servono dei segni tangibili per giustificare da un lato le richieste della Turchia all’occidente e dall’altro la retorica misericordiosa che oggi è la principale moneta di scambio del soft power turco nel mondo musulmano. I campi per rifugiati in Turchia sono esattamente questo: la materializzazione dello sforzo della Turchia, e la giustificazione delle richieste che Ankara fa al mondo – e in particolare all’Europa. I campi sono il luogo in cui ospitare i rifugiati che non hanno altro posto dove andare, ma anche il luogo in cui far passeggiare Angela Merkel e perseguire nei confronti dell’Unione europea quelle dinamiche transazionali (alcuni le chiamano: ricatto) in base alle quali è stato firmato l’accordo sui migranti dell’anno scorso. Così i campi per rifugiati di Kahramanmaras, di Osmaniye, di Sanliurfa e tutti gli altri, con i loro container e i bambini in strada, si trasformano in un messaggio all’Europa: valutate voi quanti miliardi di euro vale la vostra stabilità politica.
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