Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/06/2017, a pag. 17, con il titolo "Nel campo profughi vetrina Erdogan attacca l’Europa 'Solo noi aiutiamo i siriani' ", la cronaca di Pietro Del Re; la breve "Proiettili di gomma e lacrimogeni polizia contro il Gay Pride a Istanbul".
Ecco gli articoli:
Pietro Del Re: "Nel campo profughi vetrina Erdogan attacca l’Europa 'Solo noi aiutiamo i siriani' "
Pietro Del Re
Recep Tayyip Erdogan
Camicia a quadri sotto una giacca pied de poule, l’eloquio concitato e il braccio oratoriamente proteso, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan tuona contro l’Europa, colpevole ai suoi occhi di trascurare la tragedia siriana. Lo fa nel campo profughi della cittadina rurale di Harran, vicina al confine con la Siria, da dove Raqqa dista appena una cinquantina di chilometri. Rivolgendosi agli ospiti del campo, che chiama i suoi “fratelli siriani”, il presidente esordisce così: «I Paesi occidentali parlano dei valori della democrazia, ma in Siria hanno completamente fallito perché per molti di loro vale più una goccia di petrolio che una di sangue». Erdogan accusa poi Bruxelles per la lentezza con cui sta versando alla Turchia i primi 3 miliardi di euro promessi per farle fermare l’ondata migratoria verso il Vecchio continente. «Mentre il resto del mondo assiste in silenzio alla morte della Siria, noi turchi abbiamo già sborsato 13 di miliardi di euro». Protetto da un imponente quanto sgangherato apparato di sicurezza, il suo comizio ad Harran è l’ultima tappa di un viaggio organizzato per la stampa internazionale dalle autorità di Ankara al quale partecipa anche Repubblica. E poco importa se la cena con il presidente turco inserita nel programma per allettare le testate straniere, dal Washington Post all’Asahi Shimbun, si tramuta alla fine in una sua fugace stretta di mano: in una settimana ci sono state aperte le porte, quasi sempre sbarrate ai giornalisti, di alcuni dei 23 campi che ospitano parte dei 3,5 milioni di profughi affluiti in Turchia dal marzo 2011.
Certo, ci hanno mostrato soltanto i campi “modello”, come quelli appena ultimati a Kahramanmaras e Osmaniye, dove le tende sono state sostituite da prefabbricati di 30 metri quadri con bagno e pannelli solari, allestiti in mezzo a una moschea, un supermercato, una scuola, un ospedale e perfino un campo di calcio. Non abbiamo visto però gli altri campi, né quelli non ancora ammodernati né quelli oltre confine, anch’essi gestiti dai turchi in un’area ripulita dall’Esercito libero siriano della presenza islamista, in cui gli standard sono certamente meno alti. Soprattutto, non ci hanno fatto incontrare quei profughi che non vivono nei campi e che rappresentano il 92% delle persone scappate negli ultimi 6 anni da Aleppo, Latakia o Idlib. Anche secondo Ozgus Karademir, direttore dell’Afad, la protezione civile turca, Ankara è costretta ad affrontare da sola questa tragedia umanitaria, la più grave dalla Seconda guerra mondiale: «Basti pensare che dall’Onu abbiamo ricevuto soltanto 526 milioni di dollari. Quanto ai profughi non ospitati nei campi, sono generosamente accolti dal popolo turco nelle 81 province che conta il nostro Paese. E posso garantirle che tutti hanno un tetto sotto cui dormire e che a nessuno manca né il cibo né l’assistenza necessaria grazie alle ong, alle strutture statali e ai tanti progetti sociali che li riguardano. Se hanno bisogno di cure mediche, possono recarsi in qualsiasi ospedale privato, al quale noi pagheremo il conto».
Karademir snocciola poi le cifre dell’intervento turco in favore dei profughi: 900mila operazioni chirurgiche, 1,1 milioni di ricoveri nelle strutture sanitarie, 175 mila parti nei campi, la scuola garantita al 65% del milione e mezzo di bambini siriani, l’allestimento di 260mila tende e alloggi, la distribuzione di 1,6 miliardi di euro di cibo trasportato da 26mila camion e via elencando. «Tutto ciò perché noi non li trattiamo come profughi bensì come ospiti, garantendo loro gli stessi diritti che ai nostri concittadini». Protetto da alti blocchi di cemento e difeso da soldati armati con fucili d’assalto, il campo di Kahramanmaras somiglia a una cittadina fortificata. Qui incontriamo Mahmud Hano, 48 anni, che prima faceva il bibliotecario a Idlib. «Non ci manca davvero nulla, se non il lavoro. Lo Stato turco ci fornisce tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Non ci dà soldi in moneta ma ce li versa su una carta di credito, circa 25 euro al mese da spendere nel nostro supermercato. Qui, siamo in 10mila, e le porte del campo sono aperte dalle 5 del mattino alle 8 di sera. Vi nascono molti bambini, e per i nostri morti, quando non riusciamo a rispedirli in Siria, c’hanno anche dato un pezzetto di terra dove seppellirli». Altro che Calais o i campi di Lesbos. Per edificare questa vetrina dell’umanitario turco si sono voluti 5 milioni di euro, il suo mantenimento ne costa uno l’anno. Ma Whalid ha un solo desiderio: tornare a casa. «Lì ho lasciato i miei genitori, che vivono momenti molto difficili perché dopo la conquista lealista di Aleppo, a Idlib hanno riparato sia le truppe dell’Esercito libero siriano sia le brigate islamiste. Ma nessuno governa la regione, i prezzi sono alle stelle e l’aviazione di Damasco continua a bombardare i civili».
Quando gli chiediamo se gli piacerebbe che Assad riconquistasse l’intero Paese, dice: «Può vincere chiunque, purché la guerra finisca al più presto». È verosimile che le forze lealiste lancino entro l’anno l’offensiva di terra anche contro Idlib, il che dovrebbe scatenare un altro esodo biblico verso la Turchia. Solo da quell’area, gli esperti prevedono l’arrivo di mezzo milione di profughi. Ma, come promette Erdogan, «più profughi arriveranno, più campi costruiremo perché non siamo disposti ad abbandonare i nostri fratelli, altrimenti assieme ai muri delle case bombardate crollerebbe anche l’umanità che regge i mondo». Lo scopo di quest’operazione mediatica, con 35 giornalisti da tutto il mondo, dal Cile all’Uzbekistan e dalla Malesia alla Norvegia, consiste nel «cancellare alcuni pregiudizi ». Non è però un viaggio stampa che può far digerire le bugie dello staff presidenziale, come sostenere che il Paese accoglie chiunque chieda asilo, o far dimenticare i 169 giornalisti turchi arrestati con l’accusa di terrorismo. Ma una cosa c’hanno fatto scoprire: vuoi per motivi propagandistici, vuoi in buona fede, a differenza di altre nazioni la Turchia sta accogliendo in modo umano e dignitoso parte dei profughi siriani. Non a caso, per il terzo anno consecutivo, è stato nominato il Paese più generoso del pianeta.
"Proiettili di gomma e lacrimogeni polizia contro il Gay Pride a Istanbul"
La turchia di Ataturk e quella di Erdogan
Gli attivisti delle organizzazioni Lgbt hanno sfidato il divieto di sfilare e sono scesi in piazza a Istanbul nel giorno del Gay Pride. La polizia turca, in tenuta anti sommossa, è intervenuta con decine di agenti dispiegati ovunque. E per impedire al corteo di raggiungere piazza Taksim e via Istikal, gli agenti hanno usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Diverse persone sono state fermate. Gli organizzatori avevano preannunciato la determinazione a scendere in piazza nonostante il bando. È il terzo anno consecutivo che il governo turco vieta la manifestazione del Gay Pride. Nel 2014, a Istanbul, si radunarono decine di migliaia di persone. Venne considerato uno dei principali eventi Lgbt del Medio Oriente. Nel 2015, per la prima volta dal 2003, la polizia ha proibito la sfilata disperdendo i partecipanti con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua. La stessa cosa si è ripetuta nel 2016.
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