Riprendiamo da ITALIA OGGI, a pag. 5, con il titolo "Carlo Rosselli era un cultore di Lenin e vedeva nell'Urss staliniana il baluardo delle democrazie contro i tiranni", la recensione di Diego Gabutti.
La copertina (Carocci ed.)
Eresia militante del liberalismo italiano, costola un po' del partito socialista italiano e un po' di Rivoluzione liberale, la rivista liberalbolscevica di Piero Gobetti, Giustizia e Libertà s'ispirò nel nome a uno dei gruppuscoli clandestini di Giuseppe Mazzini (Libertà e Giustizia) e nella pratica a tutte le esperienze politiche, ideologiche e letterarie della giovane intellighenzia italiana: interventismo e pacifismo, movimento fiumano, il primo fascismo, la teoria paretiana delle élites ma anche l'anarchismo, il riformismo socialista e il modernismo religioso, l'infatuazione leninista, più tardi le sbandate trotzkiste, ma anche gli urrà alla costituzione sovietica del 1936 (la prima «costituzione più bella del mondo»). A capo di tutto, il politico e giornalista Carlo Rosselli, che «secondo il racconto d'una spia [...] intendeva diventare «un secondo Lenin»», tanto che «nel salotto di casa sua, nel cuore del quinto arrondissement, facevano «bella mostra» tutte le opere del rivoluzionario russo, che l'antifascista italiano studiava «avidamente»».
Autore di Socialismo liberale, un classico del liberalismo illiberale, e tra gl'inventori dell'antifascismo, una stravagante teoria politica che vedeva nell'Urss staliniana un baluardo delle democrazie contro i tiranni, Carlo Rosselli fu assassinato insieme al fratello Nello (storico e giornalista) nel 1937: un delitto personalmente commissionato dal Dux, un Padrino in camicia nera. Giustizia e Libertà, che poteva contare su dirigenti originali e coraggiosi quanto i due Rosselli, sopravvisse al suo fondatore. Come il partito socialdemocratico russo negli anni della clandestinità, Giustizia e Libertà fu un partito d'intellettuali, gazzettieri e professori che la storia, volgendo al peggio, aveva trasformato in rivoluzionari di mestiere, come racconta lo storico novecentista Marco Bresciani in un magnifico libro, Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà. Nell'Italia di Mussolini, l'Italia in orbace del consenso, dell'Impero e delle leggi speciali, non c'era più spazio per opinioni dissidenti e per un'opposizione legale. Sotto costante minaccia d'arresto, confinati nelle isole, in fuga, intellettuali del calibro dei Rosselli, di Nicola Chiaromonte, d'Emilio Lussu, di Leone Ginzburg, d'Andrea Caffi e di Franco Venturi presero la via dell'esilio oppure quella dell'attività clandestina.
Insieme a qualche cellula comunista, a sparsi cenacoli socialisti o repubblicani, a sparuti gruppi anarchici, i circoli di Giustizia e Libertà, sia quelli che agivano in Italia sia quelli attivi all'estero, dove tiravano le fila del movimento e pubblicavano fogli d'agitazione e ponderose riviste teoriche, erano contemporaneamente organizzazioni di lotta e gruppi di studio. Senza praticarla troppo, salvo che in Spagna dal 1936 al 1938 (dove Giustizia e Libertà organizzò la prima Brigata internazionale) e più tardi in Italia, nei giorni della Resistenza, GL non disdegnava neppure la lotta armata. «Fin dai primi passi», racconta Bresciani, «Rosselli descrisse GL nei termini d'un gruppo di «uomini temprati nella lotta illegale, usi al rischio e al sacrificio, pronti ad entrare in galera come a imbracciare il fucile»». Ma tutte le storie hanno due facce, comprese le storie dei rivoluzionari di professione, «usi al rischio e al sacrificio». E così, in piena guerra civile spagnola, quando Giustizia e Libertà invitava l'emigrazione italiana a fare «domani in Italia» quel che si stava facendo «oggi in Spagna», Rosselli scrisse che «ci si arma», è vero, «per difendersi dall'assalto fascista. Ma armandosi ci si fascistizza».
O ci si stalinizza, peggio ancora, cosa che però non preoccupava troppo gli antifascisti di Gielle. «Nel maggio 1936, al culmine dell'ondata di vasti movimenti sociali in Francia che seguirono la vittoria elettorale del Fronte popolare, Rosselli scrisse a Salvemini che la repubblica democratica parlamentare era «una forma storica». Di fronte al consolidamento e all'espansione del fascismo in Europa era «sempre più difficile [...] immaginarne la resurrezione»». Franco Venturi, racconta Bresciani, «fece conoscenza con comunisti "eretici" come il rivoluzionario franco-lituano Charles Rappoport e il sociologo francese Georges Friedmann, lesse e recensì alcune delle più significative opere della letteratura antistaliniana che allora circolava a Parigi [...].Tuttavia, ignorò la fondamentale biografia di Stalin, scritta dal trockijsta Boris Souvarine e pubblicata nel 1935 [Stalin, Adelphi 1983]: aveva forse un taglio troppo critico agli occhi di chi cercava di capire fino a che punto si potesse spingere il rigetto dell'esperimento sovietico, senza con ciò rinunciare a una prospettiva socialista». Anche sui giornalisti, professori e intellettuali di Giustizia e Libertà, come su tutta l'intellighenzia dell'epoca, si era allungata l'ombra lunga e nichilista della guerra civile europea. (E ancora ci siamo dentro a metà, se non per tre quarti).
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