Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, a pag. 3, con il titolo "La corsa per la presa di Raqqa dietro lo scontro Washington-Mosca", la cronaca di Giordano Stabile; con il titolo "Nel deserto soffia il vento di guerra", l'editoriale di Stefano Stefanini.
Ecco gli articoli:
Giordano Stabile: "La corsa per la presa di Raqqa dietro lo scontro Washington-Mosca"
Giordano Stabile
L’aviazione americana abbatte un aereo siriano, colpisce di nuovo Bashar al-Assad dopo la pioggia di missili Tomahawk del 7 aprile, e sul terreno accelera la corsa per conquistare Raqqa e la Siria orientale. La distruzione del Califfato è ancora in corso ma già si è aperta la nuova fase nel duello fra Stati Uniti e Russia in Medio Oriente. Washington vuole allargare la zona di influenza dei curdi a tutto l’Est siriano, in modo da impedire il congiungimento fra l’esercito di Assad e le forze sciite irachene lungo il confine fra Siria e Iraq. Con l’Isis in ritirata sempre più rapida, la priorità ora è impedire che si realizzi un «corridoio sciita» dall’Iran al Libano, lungo l’autostrada che unisce Baghdad e Damasco.
A Nord-Est, nella provincia di Raqqa, le Syrian democratic forces, dominate dai guerriglieri curdi e appoggiate da forze speciali e aerei statunitensi, sono entrate nei sobborghi di Raqqa e continuano a premere verso Sud. Nella direzione opposta, lungo il confine con la Giordania e l’Iraq, i ribelli addestrati da Usa e Gran Bretagna cercano di avanzare verso Nord e la città di Deir ez-Zour. Dopo la conquista di Raqqa, sarà proprio attorno a questo centro che si giocherà la partita decisiva per gli assetti in Mesopotamia.
Per strapparlo all’Isis e riprenderselo prima degli altri, il governo siriano ha lanciato una potente offensiva su tre direttrici, dopo aver stipulato tregue con i ribelli su tutti gli altri fronti. A Sud, reparti dell’esercito regolare, milizie irachene e libanesi puntano verso il posto di frontiera di Al-Tanf, in mano ai ribelli filo-Usa. Il Pentagono ha reagito, tre raid nel giro di pochi giorni li hanno costretti a fermarsi. Gli uomini di Assad hanno allora aggirato Al-Tanf e raggiunto comunque il confine con l’Iraq.
Nella zona centrale, da Palmira, le forze speciali di Damasco tagliano veloci il deserto siriano e sono ora a 70 chilometri da Deir ez-Zour, dove da tre anni resiste una guarnigione assediata dagli islamisti. A Nord, invece, l’esercito procede verso Raqqa e punta a impossessarsi della base militare di Tabqa, ora in mano ai curdi, per poi avvolgere la capitale dello Stato islamico sul lato meridionale e proseguire lungo l’Eufrate, ancora verso Deir ez-Zour. È qui che si sono verificati gli scontri più gravi, a terra e nel cielo, con l’abbattimento domenica sera di un bombardiere siriano da parte di un caccia americano.
È stato un duello aereo, il primo dal 1999, quando l’aviazione americana era impegnata contro quella serba sul Kosovo. Il Su-22 siriano ha sganciato una bomba su una postazione curda vicino a Tabqa, i curdi hanno chiesto assistenza e un F-18 Super Hornet è intervenuto, ha ingaggiato il Sukhoi e lo ha abbattuto con un missile aria-aria. Washington sostiene che l’aereo americano ha usato il canale radio per le comunicazioni con russi e alleati, che serve proprio a evitare incidenti di questo tipo, e invitato l’avversario a ritirarsi. Damasco però nega che il suo pilota sia stato avvertito e contesta che la bomba sia stata sganciata sui curdi, bensì su una postazione dell’Isis.
Fatto sta che lo scontro nei cieli ha fatto precipitare la situazione anche a terra. L’esercito siriano ha cercato di sfondare le linee dei curdi, per recuperare il pilota, il capitano Ali Fadh, a quanto pare già morto. Ne è scaturita una battaglia con i guerriglieri, la più dura fra curdi e siriani in sei anni di guerra civile, mentre la Russia alzava i toni con l’America, e sospendeva il programma di «de-conflicting», lo scambio costante di informazioni sulle attività dei propri jet sopra la Siria. A questo punto, ha precisato il ministero della Difesa, «a Ovest dell’Eufrate, droni e aerei della coalizione saranno trattati come bersagli».
Significa che i caccia e i sistemi anti-aerei russi minacciano i jet americani. E che esercito siriano e curdi ora sono in lotta con l’appoggio diretto delle aviazioni e delle forze speciali della potenza di riferimento. In prospettiva, un Vietnam. Washington ha ribadito che «continuerà a fornire supporto agli alleati sul terreno» ma anche precisato che gli aerei saranno «riposizionati». Vale a dire non si spingeranno oltre la «linea rossa» tracciata da Mosca. In questo momento il Pentagono è impegnato con decine di raid al giorno a Raqqa per sostenere l’avanzata dei curdi e cerca di evitare un’escalation. Ma le tensioni sono sempre più incontrollabili e la battaglia per la conquista dell’Est siriano rischia di rallentare la distruzione dello Stato islamico. Proprio quello che spera il califfo Abu Bakr al-Baghdadi, se è ancora vivo.
Stefano Stefanini: "Nel deserto soffia il vento di guerra"
Stefano Stefanini
L’allarme per un ritorno alla guerra fredda non suona solo in Europa. Nelle ultime 24 ore Mosca e Washington sono venute ai ferri corti in Siria, dove avevano finora osservato una parvenza di convivenza se non di collaborazione. La caduta dello Stato Islamico lascia un vuoto di potere al centro della Mesopotamia. Russi e americani si stanno precipitando per controllarlo. Si è aperta la gara per arrivare primi alla capitale del califfato. La crisi siriana diventa così una crisi russo-americana.
Gli americani hanno abbattuto un Sukoi-22 di Assad che bombardava la Forza Democratica Siriana (Sdf), anti-Isis e anti-regime, che gli Usa sostengono. Dicono di aver avvisato i russi. Mosca ha risposto con durezza, sospendendo la linea russo-americana di comunicazioni militari sulla Siria e avvertendo che considererà «bersagli» i velivoli americani e della coalizione: Damasco è un alleato e i suoi aerei non si toccano. Tanto per complicare la situazione, dall’Iran, l’altro alleato di Mosca, sono partiti, per la prima volta, missili contro il califfato.
Isis è la prima vittima della corsa a Raqqa. Non farà spargere molte lacrime. Sconfitto nelle ambizioni territoriali, il califfato cercherà di rifarsi col terrorismo ma la perdita delle proprietà immobiliari lo rende obiettivamente più debole e meno carismatico. L’Europa deve comunque prepararsi a uno jihadismo di ritorno, in aggiunta a quello già stanziale, che ha colpito anche ieri una Londra martoriata.
O le varie parti del negoziato siriano tornano al tavolo delle trattative o si profila una fase due della crisi siriana, questa volta dominata sullo sfondo dal braccio di ferro fra Russia e Stati Uniti. La presa di Raqqa sarà solo il primo atto. Sul terreno gli americani, i cui alleati curdi quasi circondano la città su tre lati, sono meglio piazzati. Potrebbero essere loro a piantare la bandiera, per procura e/o con qualche forza speciale. Si passerebbe però subito al secondo atto: il conflitto fra le forze (curdi, Sdf), sostenute dagli Usa e dalla coalizione internazionale, e quelle di Assad, affiancate dagli Hezbollah iraniani e appoggiate pesantemente dalla Russia.
Il rapporto di forze è favorevole a Damasco, almeno sulla carta. Mosca ha investito molto in Siria. Ha sul terreno un forte spiegamento militare, soprattutto aereo. Non si rassegnerà facilmente a vedere Assad perdente al centro della Siria, dopo averlo rimesso in sella su un buon terzo del paese, compresa la capitale, Aleppo (a terribili costi umanitari) e quasi tutta la fascia costiera. Non ci si tira indietro dopo essersi spinti a tanto. Gli altri attori regionali non staranno a guardare, a cominciare dalla Turchia anti-Assad ma che non vuole un rafforzato «Kurdistan» al proprio confine. Arabia Saudita e Qatar esporteranno le loro rivalità in Siria ancora più di quanto non abbiano già fatto. Ci sono tutti gli ingredienti per più anziché meno conflittualità.
Chi controlla Raqqa controlla uno spazio strategico fra Siria, Iraq, Iran, Turchia, Giordania e Arabia Saudita. E’ l’entroterra del Mediterraneo e del Golfo. I confini contano poco. Per gli attori regionali la posta è sempre stata alta. Per Russia lo diventa dal momento in cui Mosca ha scelto di fare della Siria il trampolino per il rientro sulla scena mediorientale e globale. Per gli Stati Uniti dal momento in cui la sfida russa mette in predicato la loro supremazia in Medio Oriente, incontrastata dalla fine della guerra fredda. Donald Trump ha fatto di Riad e Gerusalemme le sue prime tappe estere. Il rilancio americano, già alle prese con la difficile vertenza qatarina, sarebbe morto sul nascere.
Se non si riattiva il processo politico-diplomatico, come sta eroicamente cercando di fare da mesi l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura, la crisi siriana si avviterà su stessa sulle spoglie del non compianto Stato Islamico. Il rischio è che diventi anche teatro di un confronto militare fra Stati Uniti e Russia, anche se solo per procura. La tenue speranza è che proprio perché direttamente coinvolte Washington e Mosca finiscano per negoziare e far negoziare anche gli altri. Come ai vecchi tempi.
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