Riprendiamo da LEFT, con il titolo "Si legge Qatar si pronuncia Iran", il commento di Umberto De Giovannangeli.
UDG dall'Unità passa a Left, ma quello che scrive non cambia. L'articolo delinea le dinamiche tra potenze arabe e islamiche in lotta per il predominio in Medio Oriente. UDG, però, dà a Trump la responsabilità di aver provocato questo conflitto con la sua recente visita in Arabia Saudita. E' un'idea palesemente falsa, perché il mondo islamico è percorso da guerre interne dai tempi di Maometto 1400 anni fa, e il conflitto si è intensificato negli ultimi 40 anni, dopo la presa del potere in Iran del clero fondamentalista sciita. L'ideologia islamista, però, non trova spazio dell'analisi di UDG. Anche questa non è una novità. Se un fatto nuovo si è verificato in Medio Oriente è derivato dalla coalizione sunnita voluta da Trump.
Ecco l'articolo:
Umberto De Giovannangeli
Doha, capitale del Qatar
Nulla sarà più come prima. Nel Medio Oriente destabilizzato, segnato dal devastante conflitto siriano che continua a mietere vittime senza soluzione di continuità, è iniziata la "Guerra delle petromonarchie" del Golfo. Guerra, per ora, diplomatica e politica, ma che ben presto potrebbe trasformarsi in scontro armato. Riyad contro Doha. Al Arabiya contro Al Jazeera (perché anche di guerra mediatica si tratta). Guerra combattuta in nome di quel "patto sunnita" in funzione anti-iraniana, "benedetto" da Donald Trump nel summit in terra saudita dello scorso 18 maggio. «Durante il mio recente viaggio in Medio Oriente, ho sostenuto che non si può più finanziare l'ideologia dell'estremismo. I leader hanno indicato il Qatar, e guardate!", twitta entusiasta il tycoon sovranista.
Il cinguettio del presidente Usa viene accolto con una certa sorpresa dai media internazionali. A cominciare dall'israeliano Haaretz, che sul sito e su facebook sottolinea come Trump sembri essersi dimenticato che proprio in Qatar sorge una delle basi americane più grandi della regione, che ospita qualcosa come 11.000 militari statunitensi. Poco dopo il presidente conferma la lettura israeliana con una doppietta di tweet, arrivando a definire l'isolamento del Qatar come «l'inizio della fine dell'orrore del terrorismo». «E' bello vedere che la visita in Arabia Saudita con il re e 50 Paesi sta dando i suoi frutti. Hanno detto che avrebbero assunto una linea dura sui finanziamenti all'estremismo, e tutti i riferimenti puntavano al Qatar. Forse questo sarà l'inizio della fine dell'orrore del terrorismo».
II Golfo Arabico rischia di esplodere, sommando conflitto a conflitto: quello, mai cessato su scala regionale, tra sunniti e sciiti, e quello intrasunnita. La "Guerra delle petromonarchie" ha una data di inizio: 5 giugno 2017. Con una mossa senza precedenti. Arabia Saudita, Egitto, EAU e Bahrein rompono le relazioni diplomatiche con il Qatar chiudendo le frontiere con il piccolo, ma ricchissimo, Emirato, ed estromettendolo dalla coalizione che combatte in Yemen contro l'alleanza tra i ribelli Houthi filo-iraniani e le forze fedeli all'ex presidente Saleh. Ai quattro si sono poi aggiunti anche le Maldive, il governo della Libia orientale - sostenuto dall'Egitto e non riconosciuto dall'Onu - lo Yemen, afflitto da una guerra sanguinosissima in cui proprio una coalizione a guida saudita svolge un ruolo di primo piano, Mauritius e Mauritania, mentre la Giordania ha annunciato un abbassamento del livello dei contatti diplomatici con il Qatar. Senegal e Ciad hanno richiamato i loro ambasciatori da Doha. Con l'interruzione dei rapporti e la notifica di espulsione del personale diplomatico qatarino da questi Paesi, sono arrivati anche lo stop al traffico aereo e marittimo e, con i vicini, la chiusura dei confini. E lo scontro si veste anche di guerra di religione con l'Arabia Saudita che vieta ai qatarini di entrare nella più sacra delle moschee, quella della Kaaba alla Mecca.
La rottura delle relazioni con il Qatar rappresenta in realtà il punto più alto di una crisi che si trascina ormai dalla conclusione del recente viaggio di Donald Trump nella regione in cui il neo presidente Usa ha voluto rilanciare la necessità di un fronte anti—terrorismo unitario (con una chiara dedinazione anti—iraniana). L:accusa mossa al Qatar, in sintonia con la dottrina-Trump, è di supportare al-Qaeda, i Fratelli musulmani e, più recentemente, anche gruppi filo-iraniani. All'iniziativa di re Salman si accodano subito il Bahrein - dal 2011 un protettorato di fatto dell'Arabia Saudita - e l'Egitto del presidente-generale Abdel Fattah al-Sissi, che finanzia le sue commesse militari con i petrodollari soprattutto emiratini. Il 9 giugno, altra tappa dell'escalation. Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Bahrein ed Egitto pubblicano la lista di 59 personalità e 14 organizzazioni ospitate dal Qatar e accusate di appoggiare e finanziare il terrorismo. La lista dettagliata - nella quale ci sono anche membri della famiglia dell'emiro e 3 Organizzazioni caritatevoli legate allo Stato - è un altro passo verso il conflitto armato.
Queste "Charities" sono da anni sospettate di aver finanziato, oltre Hamas, anche gruppi legati ad al-Qaeda e, per lo meno fino al 2016, persino l'Isis. Ma è la prima volta che altri Stati sovrani accusano pubblicamente il Qatar. Al fianco del quale si schiera il "Sultano di Ankara": nella notte dell'8 giugno, il presidente Recep Tayyp Erdogan controfirma la le i:e che gli permette di inviare soldati turchi e addestratori nell'emirato, un primo contingente di 5 mila uomini che potrebbe salire a 15 mila. Il sostegno di Ankara a Doha si spiega soprattutto esaminando il versante economico: secondo le cifre pubblicate dai media gli investimenti qatarini in Turchia ammontano a 1,5 miliardi di dollari. Compagnie turche hanno ottenuto contratti per più di 13 miliardi di dollari per i progetti in vista della Coppa del Mondo di calcio prevista nel 2022. A tenere assieme Riyad e Doha era stata un'alleanza tattica in Siria, finalizzata alla creazione di un fronte unico per cacciare Assad. Un'alleanza tattica naufragata sullo stesso terreno siriano per effetto dell'intervento di Mosca.
«Oggi - rimarca in proposito Pietro Batacchi, direttore di Rid (Rivista italiana difesa) - con Assad saldamente in sella, e la normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Russia, le ragioni che tenevano legata questa cordata di comodo vengono meno e le vecchie contraddizioni riemergono con grande virulenza. Il Qatar, assieme alla Turchia, è il principale sponsor della Fratellanza musulmana in tutto il Medio Oriente: dalla già citata Siria, fino alla Libia, dove Ankara e Doha sostengono il Consiglio Presidenziale di Serraj, mentre Sauditi, e soprattutto, Emirati sostengono Haftar assieme all'Egitto. La Turchia, inoltre, ha già aperto una base militare in Qatar e presto verrà stabilito anche un comando divisionale congiunto a Doha. Ai capicordata sauditi, probabilmente, non è piaciuto nemmeno il compromesso sulla Siria tra Putin e Erdogan (e, ovviamente, Khamenei...) che ha portato ai colloqui di Astana che per la parte ribelle vedono protagonisti, appunto, alcune delle fazioni del Free Syrian Army vicine alla Fratellanza Musulmana. Un compromesso che, nei fatti, legittima Assad. Soprattutto, ai Sauditi non sono mai piaciute le "relazioni normali" che il Qatar tradizionalmente intrattiene con l'Iran: relazioni basate su solidi interessi economici comuni, a cominciare dalla sfruttamento congiunto del giacimento gasifero di South Pars/North Dome, il più grande del mondo". Affari e geopolitica: un intreccio indissolubile nella "guerra delle petromonarchie».
Le tensioni tra il Qatar e i suoi vicini, e in particolare con l'Arabia Saudita - come rimarca un documentato dossier dell'Ispi - sono dovute principalmente al fatto che, nella compagine del Consiglio di cooperazione del Golfo, Doha è quella che - insieme al tradizionalmente "neutrale" Oman - più di tutti gli altri membri persegue una propria politica estera, il più possibile autonoma dai dettami di Riyad. Fedele al principio di differenziazione dei propri interlocutori il Qatar dà voce, anche e soprattutto grazie alla propria emittente satellitare Al Jazeera, a una pluralità di attori politici, non ultimi coloro che durante le "Primavere arabe" protestavano contro i regimi autoritari. Vi è poi una rilevante divergenza di vedute riguardo alle diverse declinazioni dell'Islam politico. Pur appartenendo a quello che viene spesso erroneamente identificato come un monolitico "blocco sunnita", Qatar e Arabia Saudita sono portatori - e sostenitori - di dedinazioni profondamente diverse. Se il Qatar sostiene i Fratelli musulmani (non a caso messi fuorilei:e in seguito all'accusa di essere un'organizzazione terrorista dall'Egitto di Al—Sisi) e Hamas a Gaza, l'Arabia Saudita culla del wahhabismo funge da ispirazione dottrinale per le formazioni dell'Islam salafita. Al di là dell'isolamento "fisico" e delle misure diplomatiche, le ripercussioni maggiori, si attendono a livello economico. Nell'immediato, la crisi diplomatica ha fatto crollare l'indice della borsa di Doha di oltre il 7%. A questo si è sommato inoltre l'invito dell'Arabia Saudita alle maggiori imprese internazionali a interrompere le relazioni economiche e commerciali con il Paese, in quella che è stata percepita come una velata minaccia di essere escluse dall'economia saudita, dalle dimensioni maggiori rispetto a quella del Qatar. Se per il momento il piccolo emirato sembra essere dotato dei mezzi necessari per resistere alla manovra di isolamento regionale — Doha dispone di un fondo sovrano del valore di quasi 340 miliardi di dollari e di un surplus commerciale che nel solo mese di aprile si è attestato a 2,7 miliardi di dollari — è altrettanto vero che la crisi diplomatica potrebbe avere conseguenze negative più ampie in termini di contratti commerciali e di investimenti sul lungo periodo.
Oltre all'aspetto economico, vi sarebbero implicazioni di vasta scala anche per il prestigio del Paese, una moneta sulla quale il Qatar ha investito parecchio negli ultimi anni. L'esempio più lampante verrebbe dal danno di immagine qualora la crisi dovesse avere conseguenze negative sull'organizzazione dei mondiali di calcio del 2022, iniziativa sulla quale Doha ha investito un enorme capitale politico, economico e diplomatico, e dalla quale si attende un ritorno commisurato allo sforzo. Infine, allargando il quadro alla geopolitica regionale, appare chiaro come dal totale isolamento non potrà più derivare una politica eccessivamente "creativa. Lo sforzo in corso da parte del fronte sunnita, anzi - conclude il report dell'Ispi - sembra essere proprio quello di chiudere definitivamente gli spazi di autonomia della piccola monarchia. In campo scende anche l'Iran, vero obiettivo della crisi del Golfo. Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif telefona a una serie di leader regionali. In particolare, Zarif ha conversazioni telefoniche con i ministri degli Esteri di Turchia, Indonesia, Iraq, Oman, Tunisia, Malaysia, Libano, Algeria, Kuwait e con l'Alto rappresentante della politica estera dell'Unione europea Federica Mogherini. In tutte queste occasioni Zarif sottolinea la necessità di procedere con il dialogo per risolvere i problemi attuali.
«I confini sono permanenti, la geografia non può essere cambiata. La coercizione non è mai la soluzione. Il dialogo è un imperativo, soprattutto durante il Ramadan», scrive Zarif sul twitter. La rottura tra il fronte a guida saudita e il Qatar è del 5 giugno. Due giorni dopo, Teheran è sotto attacco terroristico con il duplice attentato (13 morti e 39 feriti) al Parlamento e al Mausoleo di Khamenei, rivendicato dall'Isis, espressione estrema del jihadismo sunnita. Ma l'ira dei parlamentari scampati all'attacco si riversa contro l'America e, soprattutto, contro Riyad («Morte all'Arabia Saudita», scandiscono). «Ovviamente - annota Olivier Roy nel suo libro Generazione his - entrambi i Paesi forniscono una lettura religiosa del conflitto. Per l'Arabia Saudita è una lotta contro l'eresia e, di conseguenza, la promozione del salafismo viene considerata parte integrante della politica estera del regno. Per l'Iran, una volta abbandonato il sogno di sollevare le piazze arabe' contro i regimi conservatori, l'obiettivo è quello di federare gli sciiti e altri gruppi assimilabili (alawiti, zayditi) per erigersi ad arbitro dei conflitti regionali. Si tratta, quindi, di un conflitto interno al Medio Oriente che oppone musulmani contro altri musulmani...».
In realtà, per l'Arabia Saudita, il nemico principale è l'Iran e la sconfitta dell'Isis implicherebbe il consolidamento di un ampio asse sciita che da Baghdad arriverebbe a Beirut passando per Damasco. Il cerchio si stringe: il Qatar è sotto assedio. Un ponte aereo con centinaia di tonnellate di frutta, verdura, carne, per aiutare il Qatar a resistere all'assedio imposto dai suoi ex alleati del Golfo. L'Iran entra con decisione nel duello fra le potenze sunnite, dal quale ha tutto da guadagnare. Domenica 11 giugno i primi quattro aerei cargo, grandi B-747F, sono atterrati a Doha e hanno cominciato un'operazione a lungo termine, almeno nelle intenzioni di Teheran, che parla di rifornimenti "quotidiani". Il "ponte aereo" parte dalla città iraniana di Shiraz, precisa il portavoce di IranAir, Shahrokh Noushabadi che annuncia: "Ogni giorno esporteremo 100 tonnellate". Industrie alimentari e grossisti si sono tuffati nel nuovo business. Affari e mire di potenza. Sunniti versus sciiti, sunniti contro sunniti. Il Grande Medio Oriente è sempre più in fiamme. Una polveriera (nucleare) pronta ad esplodere.
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