Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 14/06/2017, a pag. 1-8, con il titolo "Lupi solitari e reti jihadiste. Ecco chi colpisce l’Occidente per mano del Califfato", il commento di Lorenzo Vidino; dal FOGLIO, con il titolo "Ultimo tango a Raqqa", il commento di Daniele Raineri.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Lorenzo Vidino: "Lupi solitari e reti jihadiste. Ecco chi colpisce l’Occidente per mano del Califfato"
Il commento di Lorenzo Vidino, sminuisce di fatto il ruolo dell'ideologia religiosa - l'islam - nella maturazione del terrorismo, che non a caso va definito per quello che è: "terrorismo islamico".
Ecco il pezzo:
Ideologia d'odio: il pifferaio magico dell'islam
Negli ultimi tre anni, l’Europa e il Nord America sono stati colpiti da un’ondata senza precedenti di attacchi terroristici. Quali sono gli obiettivi del terrore? Chi sono gli individui che hanno eseguito questi attentati? Come si sono radicalizzati? Sono nati e cresciuti in Occidente o rappresentano una minaccia esterna (cioè sono rifugiati e migranti)? Hanno trascorsi criminali? Erano ben istruiti e integrati o, al contrario, vivevano ai margini della società? Hanno agito da soli? Quali erano le loro connessioni con lo Stato islamico?
Per cercare di rispondere a questi e altri quesiti dai fondamentali risvolti di policy, un nuovo studio, di cui sono co-autore insieme a Francesco Marone, e pubblicato da Ispi e George Washington University, ha analizzato i 51 attacchi e i 66 attentatori che hanno colpito l’Occidente dalla nascita del Califfato nel giugno del 2014 a oggi. I dati che ne sono derivati, e che sono qui parzialmente sintetizzati, danno una panoramica dettagliata della minaccia, utile a capirne l’entità e le caratteristiche.
Innanzitutto i 51 attacchi, che in totale hanno provocato 395 vittime e almeno 1549 feriti, variano enormemente in termini di sofisticatezza, letalità, bersagli e legami con lo Stato islamico. Alcuni sono attentati coordinati con un ingente numero di vittime, sul modello di quelli avvenuti a Parigi nel novembre 2015. Ma la maggior parte sono azioni eseguite da attori solitari, spesso all’arma bianca e pertanto meno letali (ma l’attentato compiuto con un camion a Nizza da un lupo solitario ha causato 86 vittime). Sono tutte azioni compiute da soggetti ispirati dall’ideologia jihadista, ma solo l’8% degli attacchi sono stati perpetrati da individui che hanno ricevuto ordini direttamente dai vertici del Califfato e 26% sono stati compiuti da individui aventi una qualche forma di connessione con lo Stato islamico, ma che hanno agito autonomamente.
A conferma che lo spontaneismo, pericoloso perché imprevedibile, domini la presente ondata di jihadismo, il 66% degli attacchi sono stati compiuti da soggetti privi di qualsiasi legame operativo col Califfato. E solo il 38% degli attacchi è stato rivendicato da gruppi jihadisti (quasi sempre dallo Stato Islamico). Il Paese più colpito è la Francia (17), seguito da Stati Uniti (16), Germania (6), Regno Unito (4), Belgio (3), Canada (3), Danimarca e Svezia (1).
Chi sono gli attentatori? Nonostante la crescente presenza femminile nelle reti jihadiste, su un totale di 66 attentatori vi sono solo 2 donne. E nonostante vi sia una generale tendenza verso la radicalizzazione di individui sempre più giovani, l’età media degli attentatori è di 27,3 anni (con solo 5 minorenni). Il 17% sono convertiti all’Islam, con percentuali sensibilmente più elevate in Nord America. Il 57% ha trascorsi criminali. Solo il 18% vanta un’esperienza di combattimento all’estero come foreign fighter; tuttavia, tendenzialmente, tale tipologia di terroristi è coinvolta negli attacchi più letali.
Viste le implicazioni dal punto di vista politico si è voluto analizzare anche lo status migratorio degli attentatori. I dati mostrano che il 73% degli attentatori è composto da cittadini del Paese in cui è stato eseguito l’attacco; il 14%, poi, era legalmente residente in tale Paese o in visita da Paesi confinanti. Solo il 5% è composto da individui che al momento dell’attacco erano rifugiati o richiedenti asilo. Il 6%, infine, risiedeva illegalmente nel Paese bersaglio al momento dell’attacco.
Sebbene sia arduo prospettare sviluppi futuri, pare chiaro che la minaccia posta dal terrorismo jihadista non sia destinata a svanire nel breve termine – da presidente, Obama aveva parlato di una «sfida generazionale». Il modo in cui i decisori politici, le autorità antiterrorismo e il grande pubblico concettualizzeranno e risponderanno a questa inedita ondata terroristica avrà implicazioni significative, poiché potrà plasmare varie questioni di politica interna ed estera strettamente intrecciate. Dei freddi numeri da soli non ci fanno capire cosa motivi giovani musulmani occidentali ad adottare il credo jihadista, ad uccidere e farsi uccidere in nome di esso. È però fondamentale che qualsiasi tipo di analisi e decisione parta dai fatti e non da fuorvianti preconcetti e illazioni politiche.
IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Ultimo tango a Raqqa"
Daniele Ranieri
Roma. Questi sono gli aggiornamenti a proposito della guerra allo Stato islamico. A Mosul in Iraq nelle prossime quarantott’ore ci si aspetta l’inizio dell’operazione per prendere la moschea al Nuri, nel cuore della Città vecchia, al centro della città, l’ultima area ancora in mano allo Stato islamico, che è circondato da tutti i lati. Il comando iracheno teneva molto a prendere la moschea al Nuri durante la prima settimana di giugno, così da dichiarare vittoria prima del terzo anniversario della caduta di Mosul in mano agli uomini di Abu Bakr al Baghdadi, una delle pagine più ignominiose per le forze armate del paese. Non ci è riuscito, ma è ancora in tempo per farlo prima del 5 luglio, anniversario del discorso di al Baghdadi dal minbar, il pulpito, di quella moschea. In quel primo e unico sermone in pubblico – ma con straordinarie misure di sicurezza, incluso un servizio d’ordine nascosto in mezzo alla folla e il blocco elettronico di tutti i telefonini nell’area – al Baghdadi si presentò come Califfo davanti alla Umma musulmana (la comunità dei fedeli) e invitò tutti i musulmani a spostarsi sotto la sua protezione. Non fu, come talora si dice, il discorso che proclamò la nascita del Califfato: quello fu fatto una settimana prima dal suo vice, Abu Mohammed al Adnani (ucciso da un drone americano ad agosto 2016). A Raqqa in Siria le Forze siriane democratiche (Sdf, secondo la sigla in inglese che è più usata), un mix di curdi e arabi armati e finanziati dagli americani – con prevalenza di combattenti curdi delle unità di difesa popolare, quindi vicini al Pkk – avanzano più veloci del previsto. La conquista di Raqqa appare per ora più facile rispetto a Mosul, un po’ per le dimensioni molto più contenute, neanche un decimo, e un po’ perché da due mesi lo Stato islamico ha spostato i capi e le strutture importanti più a sud, sempre sulle sponde dell’Eufrate, in una città più piccola che si chiama Mayadeen.
Le Sdf avanzano da nord, est e ovest, e lasciano il lato sud aperto per permettere ai baghdadisti di scappare verso sud. Così alla città già molto danneggiata dai bombardamenti potrebbero essere risparmiati i soliti, violentissimi combattimenti urbani fino alla morte. Importante: Sputnik, il canale della propaganda di stato russa, adesso chiama le Sdf “terroristi”. Segno che Mosca e il governo Assad pensano di riprendere Raqqa non appena le Sdf avranno fatto il lavoro duro, sloggiare i fanatici dell’Isis. Tuttavia, lo Stato islamico non condivide questa supposta facilità: un articolo su al Naba, settimanale in arabo del gruppo terrorista, spiega che in Siria il fronte anti Isis non può raccogliere i grandi numeri che sono impegnati nella conquista estenuante di Mosul (cinquantamila circa), che le Sdf si sono impantanate nelle battaglie precedenti e che grazie a una resistenza feroce l’Isis potrebbe costringere l’Amministrazione Trump a mandare più soldati americani in Siria – e questo è l’obiettivo del jihad. L’agonia territoriale dell’Isis a Mosul e Raqqa distrae da quello che succede in un altro settore importante, il deserto al confine tra Siria e Iraq. Il generale iraniano Qassem Suleimani è apparso laggiù, a conferma che quell’area – un tempo insignificante – ora è al centro degli appetiti delle forze straniere in Siria.
Suleimani è l’architetto delle operazioni militari dell’Iran in medio oriente, sia quelle dichiarate sia quelle clandestine. Se dividiamo quella regione in due quadranti, uno nord e uno sud, possiamo dire che a nord continua la caccia al capo dello Stato islamico Abu Bakr al Baghdadi. Le milizie sciite sono appena entrate a Baaj, poco più di un villaggio in mezzo a una catena di altri villaggi, che secondo il parere delle intelligence occidentali e arabe era il rifugio favorito di al Baghdadi. I clan locali gli sono – gli erano? – fedeli in modo particolare e lui quasi senza scorta, con molto understatement, poteva muoversi in zona e sfuggire al destino dei suoi luogotenenti, inchiodati dai droni dentro o vicino alle grandi città in mano all’Isis. Anche Martin Chulov, corrispondente del Guardian, è arrivato a Baaj, che come si sarà capito è un posto dove i giornalisti non entravano nemmeno durante gli anni della guerra americana, dieci anni fa, tanto era infestato. A sud invece c’è una situazione imbarazzante per l’Amministrazione Trump: le forze speciali americane sono circondate dalle milizie assadiste e iraniane in una base vicino al posto di frontiera di al Tanf. Per ora i miliziani si tengono a qualche decina di chilometri di distanza, perché quando si avvicinano i jet americani li bombardano. Ma quanto potrà andare avanti questa situazione? Per tenere quel posto di frontiera, l’America entrerà in una sfida diretta con Damasco e Teheran?
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