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Sondaggi e buon senso a destra: gli Accordi di Oslo Cari amici, io non sono un fedele del culto dei sondaggi. Ho abbastanza memoria per ricordare i clamorosi fallimenti nelle previsioni elettorali delle ultime campagne in Italia, sulla Brexit e così via. Vi parlo dunque oggi di due sondaggi recenti, uno fra i cittadini israeliani e il secondo fra quelli dell'Autorità Palestinese. Il primo è stato svolto all'inizio del mese, su commissione del quotidiano Israel Hayom, in risposta a un'altro sondaggio commissionato dal Canale 2 della televisione israeliana, da cui sarebbe risultato che un 47% (cioè una minoranza, anche se cospicua) dei cittadini israeliani, compresi naturalmente gli arabi, sarebbe ancora favorevole alla soluzione dei due stati, secondo le linee armistiziali del '49 (quelli che i giornali chiamano inesattamente "confini del '67") con scambi di territori che preservino i grandi blocchi degli insediamenti. E' un risultato che ha un margine statistico di errore consistente, ma resta la tendenza: il popolo israeliano, inclusa la minoranza araba, considera più importante conservare il controllo di Gerusalemme che concludere un accordo di pace. E' un segno di buon senso, di realismo: Gerusalemme è la concreta identità del popolo ebraico, gli accordi di pace in Medio Oriente di solito non valgono più della carta su cui sono scritti. Come vedete, la maggioranza della popolazione generale dell’Autorità Palestinese non condivide affatto le politiche estremiste dei loro dirigenti, non pensa che tutto vada sacrificato alla guerra con Israele, vorrebbe vivere una vita normale, è attenta più ai posti di lavoro che ai simboli politici, insomma vorrebbe normalizzare la situazione. Il problema è che, per il tragico errore compiuto dai pacifisti del Partito Laburista e purtroppo avallato da Rabin, stringendo quegli accordi di Oslo che importarono in Giudea, Samaria e Gaza le bande terroristiche dalla Tunisia dov’erano ingabbiate invece di mettersi d’accordo con i capitribù locali, nell’Autorità Palestinese comandano i professionisti del terrorismo, che non hanno fatto altro in vita loro se non “combattere” e non sono affatto interessati ad altro, per esempio al banale benessere economico del loro popolo (di solito invece la ricchezza loro e delle loro famiglie gli interessa, eccome). Lo stesso avviene anche per i capi degli arabi israeliani, che eleggono regolarmente leadership ideologiche intransigenti. Ma a differenza dei loro cugini di Ramallah e Gaza essi godono di una democrazia reale e questo illustra la loro responsabilità collettiva: anche se tutti i dati mostrano che gli arabi israeliani stanno meglio dei sudditi dell’Autorità Palestinese e non sarebbero affatto disposti a scambiare lo status di cui godono con il loro, non riescono a evitare di farsi rappresentare da personaggi che considerano loro primo compito cercare di danneggiare Israele in ogni modo possibile, partecipando a flottiglie omicide, approfittando della loro immunità parlamentare per portare oggetti proibiti ai detenuti, comunicando informazioni segrete ai nemici, eccetera. Insomma, anche se gli arabi nel territorio israeliano del ‘49, come in Giudea e Samaria, probabilmente non vorrebbero alimentare il ciclo della violenza.
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