Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/06/2017, a pag. 5, con il titolo "Così il Califfo s’infiltra tra gli ayatollah per far precipitare la crisi con Riad", il commento di Giordano Stabile; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Il fronte iraniano della guerra al terrore", il commento di Daniele Raineri.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Giordano Stabile: "Così il Califfo s’infiltra tra gli ayatollah per far precipitare la crisi con Riad"
Giordano Stabile
L’attacco nel cuore del potere degli ayatollah a Teheran, in parallelo con la crisi nel Qatar, porta a un nuovo livello lo scontro fra Iran e Arabia Saudita. I Pasdaran hanno subito accusato l’Arabia Saudita di «essere dietro» i raid al Parlamento e al mausoleo di Khomeini. Appena due settimane fa, al grande summit di Riad, il ministro della Difesa saudita Mohammed bin Salman aveva avvertito che era pronto a portare «la guerra all’interno dell’Iran prima che l’Iran la porti sul nostro suolo». I conflitti per procura che Riad e Teheran combattono in Siria e Yemen rischiano di trasferirsi sui loro territori.
Bisogna distinguere però fra dichiarazioni e realtà. Il massacro di Teheran, in base alle informazioni disponibili ieri sera, è di chiara marca Isis, organizzato dal servizio esterno del Califfato, Amn al-Kharij, preparato da una sistematica opera di propaganda e infiltrazione. Riad può magari gioire di nascosto, ma non ha partecipato in maniera diretta. Una reazione scomposta di Teheran potrebbe far precipitare la crisi ed è quello che vuole il califfo Abu Bakr al-Baghdadi, che si è inserito ancora una volta con perfetto tempismo nelle faglie che spaccano la regione per scatenare la violenza settaria e il caos.
Per l’ideologia salafita jihadista, che l’Isis ha portato alle estreme conseguenze, l’Iran è il nemico numero uno all’interno del mondo islamico. I «rafidi», come vengono spregiativamente definiti, sono considerati «politeisti» per il culto degli imam e dei santi, la massima degenerazione dell’islam, più disprezzabile persino delle altre fedi monoteiste, cristianesimo ed ebraismo. Al di là dei sogni di «Califfato mondiale», il primo obiettivo strategico dell’Isis - questo sì realistico - è spezzare «l’arco sciita» che cerca di unire in continuità territoriale Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut.
Spezzare l’arco sciita
In Libano, Siria, Iraq le milizie sciite finanziate e addestrate dai Pasdaran sono state avversarie del Califfato, sia nella sua fase di espansione che durante la controffensiva condotta da Stati Uniti, guerriglieri curdi e governi di Damasco e Baghdad. Ma se Siria e Iraq sono campi di battaglia, a Beirut l’Isis è riuscito a colpire una sola volta con forza, nel quartiere roccaforte di Hezbollah, Bourj el-Barajneh, nel novembre del 2015: 43 morti accanto all’ospedale dove venivano curati i miliziani feriti del «Partito di Dio». Una cortina di ferro lungo il confine siro-libanese ha impedito finora nuove infiltrazioni massicce, anche se è di ieri la notizia di un attentato suicida sventato, tre kamikaze che volevano farsi esplodere in un ristorante.
L’Iran, fino a ieri, si era mostrato impenetrabile per «i soldati del Califfato». Questo ha portato a numerose tesi complottistiche. Commentatori e think tank filo-sauditi hanno sostenuto che ci fosse un’alleanza implicita fra gli ayatollah e lo Stato islamico, o addirittura che gli uomini in nero fossero al soldo di Teheran. Ma l’Isis è sempre stato molto chiaro sul dovere dei «veri musulmani» di uccidere i miscredenti sciiti, distruggere le loro moschee e santuari e abbattere la Repubblica islamica. L’hanno fatto in Siria e Iraq, si sono trovati davanti a un muro quando si è trattato di colpire al «cuore dell’Impero del male».
La propaganda
Un’altra tesi, più convincente, è che i dirigenti dell’Isis abbiano deciso di scatenare una provocazione di questo livello adesso perché il Califfato è agli sgoccioli in Iraq e solo una violenta reazione settaria dell’Iran può spingere le masse sunnite a schierarsi di nuovo con il califfo. In effetti la propaganda contro l’Iran, per la prima volta massicciamente in lingua farsi, è esplosa nelle ultime settimane. È di due giorni fa un video di propaganda indirizzato all’Iran. Tre combattenti, uno di etnia iraniana, uno della regione araba del Sud-Ovest, e uno della zona del Balucistan, minacciano attentati, mostrano una moschea sciita distrutta, promettono «di non perdere una sola occasione per spargere il sangue degli sciiti».
Un mese fa, nell’ultimo numero del mensile Rumiyah (ora pubblicato anche in farsi), era apparso un lungo articolo sull’eresia «duodecimana», la corrente dello sciismo praticata in Iran, con immagini delle cerimonie per la festa dell’Ashura, considerate blasfeme, e il culto degli imam e dei loro santuari, e una foto anche del mausoleo di Khomeini a Teheran, colpito ieri. Alla luce di quanto poi successo possiamo considerare il numero del mensile un programma degli attacchi del Ramadan, seguito alla lettera dai seguaci del califfo, compreso il suggerimento di concludere le azioni con «la presa di ostaggi».
Resta da capire come la cellula di Teheran sia penetrata nel cuore del potere sciita. Il controllo delle frontiere è rigido, quello poliziesco all’interno è asfissiante. Le uniche «porte di accesso» sono le minoranze che vivono ai confini della repubblica islamica, quasi tutte di fede sunnita. Per questo il video che ha preceduto l’attacco fa parlare loro esponenti.
L’Iran confina con l’Afghanistan dei nemici taleban e ospita a Est piccole comunità pashtun, a Sud-Est c’è il Balucistan, dove è attivo il gruppo terrorista sunnita dei Jandullah, a Sud-Ovest, nel Khuzestan, c’è una grossa minoranza araba, già sfruttata da Saddam durante la guerra Iraq-Iran. Nel video diffuso dai terroristi che hanno attaccato il Parlamento si sentono parlare in arabo due persone, una con accento iracheno o siriano, l’altra probabilmente di madre lingua farsi. Pronunciano frasi copiate parola per parola da un discorso dell’ex portavoce Mohammed al-Adnani del 2011, un’ulteriore firma dell’Isis: «Siamo qui per rimanere, a Dio piacendo».
IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Il fronte iraniano della guerra al terrore"
Daniele Raineri
Roma. L’effetto calcolato è arrivato in modo puntuale: le Guardie rivoluzionarie dell’Iran hanno accusato l’Arabia Saudita per il doppio attentato di ieri a Teheran rivendicato dallo Stato islamico. Un gruppo di terroristi in mattinata aveva attaccato il mausoleo dell’ayatollah Khomeini, simbolo del clero religioso, e il Parlamento iraniano, simbolo della politica terrena, che assieme formano il sistema ibrido di potere che fa andare avanti l’Iran. Il gruppo di fuoco – in tutto cinque, alcuni travestiti da donne per passare i controlli – ha ucciso dodici persone, senza riuscire ad arrivare all’interno del Parlamento ma soltanto in un’area aperta alle visite dei cittadini e da lì ha spedito un video di venticinque secondi girato con un telefonino alla cosiddetta agenzia Amaq, che è uno dei canali d’informazio - ne dello Stato islamico. Amaq ha subito ritrasmesso il video quasi in diretta su internet – e questo vuol dire che c’era un contatto molto stretto tra i terroristi e lo Stato islamico (nel caso degli attentati in occidente questo legame è di solito più difficile da dimostrare).
Molti osservatori hanno subito cominciato il gioco della colpa: Ah! Se l’Arabia Saudita detesta l’Iran e lo Stato islamico attacca l’Iran, allora l’Arabia Saudita dev’essere per forza il mandante. Puntano il dito verso il contesto internazionale, che vede una contrapposizione molto pericolosa tra l’Arabia Saudita e i suoi alleati sunniti nel Golfo da una parte e l’Iran sciita e alcuni alleati (la Siria, il gruppo armato Hezbollah, gli Houthi in Yemen, il governo siriano e la Russia) dall’al - tra. I due fronti si contendono l’egemonia regionale e spesso finanziano e armano gruppi di guerriglieri (ma non l’Isis) per farsi la guerra. Lunedì la situazione si è aggravata ancora di più perché il fronte sunnita ha espulso per punizione il Qatar, considerato troppo soft con l’Iran.
Tuttavia, non è il caso dell’attacco di ieri. In questo attacco l’Arabia Saudita non c’entra (fino a prova contraria, ma dev’essere una prova forte non una chiacchiera da suq), perché lo Stato islamico è un gruppo che è capacissimo di fare danni spaventosi nella regione da solo e senza aiuti esterni. Lo Stato islamico odia l’Iran, perché è la nazione che guida gli sciiti – il fondatore dello Stato islamico Abu Mussab al Zarqawi considerava gli sciiti “degli scorpioni velenosi, molto più pericolosi degli americani” e anche oggi la visione sull’Iran non è cambiata: è una nazione di eretici pericolosi che ha tradito l’islam. E infatti non c’è davvero un video dello Stato islamico che non citi gli sciiti come i rafidi, in arabo “i rinnegati”, e gli iraniani come i safavidi, quindi con il nome della dinastia persiana che faceva la guerra ai sunniti. Più che il contesto internazionale, vale la pena ricordare due discorsi del portavoce dello Stato islamico (Abu Mohammed al Adnani). Uno è del luglio 2011, quando le cose per il gruppo andavano molto male: “Credete che siamo finiti? Davvero pensavate che ce ne saremmo andati? Grazie a Dio, noi siamo quelli che rimarranno!”. Guarda caso, sono proprio le parole che uno dei terroristi dice nel breve video girato per Amaq dentro l’edi - ficio del Parlamento iraniano. Il significato è chiaro se si pensa che in questi giorni comincia l’offensiva curdo-araba per prendere Raqqa e il finale è scontato: lo Stato islamico perderà.
Quindi è il momento di bruciare cinque terroristi in un attacco che apparirà sui notiziari di tutto il mondo. Il secondo discorso è del maggio 2014 ed era intitolato con sarcasmo: “Chiedo scusa, o emiro”. L’emiro era l’egiziano Ayman al Zawahiri, capo di al Qaida. Adnani spiegava che non era più tempo per lo Stato islamico di rispettare al Qaida, perché il suo gruppo era molto più potente. Tra le altre cose notava: “Non abbiamo mai attaccato l’Iran, perché questo era il volere di al Qaida. L’Iran dovrebbe avere un enorme debito di riconoscenza verso di loro”. C’è del vero. L’organizzazione di Bin Laden non ha mai colpito in territorio iraniano (anche se condivide le stesse posizioni ideologiche dello Stato islamico) perché ne ha troppo bisogno come collegamento tra l’Afghanistan, a est, e l’Iraq, a ovest. Persino Zarqawi, quando nel 2002 era in fuga dagli americani arrivati a Kabul, usò la cosiddetta rat-line, la scappatoia per topi, che da Mashad sul confine afghano permetteva di risbucare in Iraq. L’Isis ha voluto marcare la differenza, di nuovo.
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