Cinquant'anni fa e speriamo per sempre
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: un'immagine simbolo della Guerra dei sei giorni: i primi soldati israeliani al Muro occidentale
Cari amici,
permettete anche a me per favore di fare un breve ragionamento sulla guerra dei sei giorni. Non solo perché secondo il calendario civile la guerra si svolse proprio in questi giorni cinquant'anni fa (il 5 iniziò con la vittoria dell'aviazione israeliana che distrusse a terra quella egiziana e in volo quella siriana, il 6 gli egiziani furono sconfitti ai confini del Sinai e iniziò l'avanzata israeliana verso il canale di Suez e furono conquistati i punti forti fondamentali a Nord e a Sud di Gerusalemme, il 7 fu la volta della Città Vecchia, il 9 fu preso il Golan). Ma anche perché le rievocazioni che ho letto mi hanno lasciato – diciamo così – l'amaro in bocca. Da un lato tutti riconoscono il carattere storico di questa guerra e il suo carattere inevitabile, dall'altro molti la trattano come un "errore", addirittura "una disgrazia" per Israele o almeno una vicenda dagli esiti "contraddittori". A me questo sembra scandaloso e molto sintomatico. Provo a spiegarvene il perché.
Intanto, questa non è la prima né l'ultima guerra araba contro Israele. Nel '48-'49 e nel '56 prima, e nel '73 dopo, si riprodussero più o meno le stesse dinamiche e gli stessi schieramenti: il tentativo dei paesi arabi di distruggere il giovane stato e buttare a mare (nella migliore delle ipotesi) gli ebrei; l'angoscia iniziale e la prevalenza della capacità di combattimento israeliana, la conquista di territori, il rifiuto arabo di trattare. E' una dinamica o una tentazione, ancora presente (http://fathomjournal.org/1967-as-long-as-the-arab-world-views-israel-as-a-temporary-aberration-to-be-conquered-israel-will-stand-fast/).
In ognuna di queste guerre gli israeliani furono riluttanti a iniziare, subirono le minacce fino al limite del pericolo assoluto, ma poi si decisero e vinsero. Questa dinamica fu particolarmente limpida nel '67. Solo un imbecille o una persona in malafede (lo dico avendo presente di chi parlo) può sostenere che Nasser, Hussein e il dittatore siriano d'allora non volessero davvero la guerra o che volessero un conflitto limitato. A parte il blocco del Golfo di Eilat, la concentrazione delle truppe, la cessione giordana del comando a un generale egiziano, i discorsi violentissimi di tutti i leader arabi, le carte uscite nel frattampo mostrano che il progetto era quello di una guerra di sterminio (http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4968426,00.html). Israele cercò quantomeno di tener fuori dal conflitto la Giordania, ma senza riuscirci.
Il problema non è dunque questa dinamica o la vittoria. Sono altri due. Il primo è che nel '67 Israele prevalse da solo. Non ricevette le armi dal blocco dell'Est come nel '48, non fu alleato di Gran Bretagna e Francia come nel '56, non ebbe i rifornimenti americani come nel '73 (anche se con grande ritardo, per via del boicottaggio dell'Europa che non permise agli aerei americani il transito e anche a causa della cinica volontà di Kissinger di idebolire lo stato ebraico). Ce la fece da solo, grazie all'audacia della sua struttura di comando e alla superiorità delle sue truppe, che pure erano in grave inferiorità numerica. Il mondo dovette ammettere che i bersagli inermi di mille pogrom, prepotenze e meschine violenze, le masse umane sterminate nella Shoà erano non solo grandi violinisti, scrittori e scienziati, ma anche guerrieri. Non più vittime, ma combattenti capaci di difendersi da sé, che avevano preso in mano davvero il loro destino dopo duemila anni. Non chiedevano protezione, ma rispetto. Fu uno choc che dura ancora oggi.
La seconda ragione è che Israele conquistò Gerusalemme, Giudea e Samaria, il Golan e la poi abbandonata Gaza. Non il territorio storico dell'antico regno di Davide e Salomone, che arrivava sulle alture al di là del Giordano, a Tiro e fin quasi a Damasco. Ma quanto bastava e basta per difendersi efficacemente. Confini naturali ragionevoli, una profondità strategica sufficiente per non farsi tagliare in due al primo attacco. E soprattutto Gerusalemme coi luoghi storici in cui si era formato il popolo ebraico. Per ragioni demografiche ovvie, Israele non è e non può essere imperialista, non aspira e non può aspirare a dominare la Siria, il Libano, l'Egitto, la Giordania. Vuole solo avere un territorio sicuro, di cui fa parte non per caso lo spazio delle sue radici storiche. Questo equilibrio fu raggiunto proprio nel '67 ed è esattamente quello che oggi i palestinisti e i loro alleati in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo cercano di rovesciare.
Parlar male della guerra del '67 vuol dire cercare di tornare ai (cosiddetti) "confini del '67", che poi in realtà sono le linee armistiziali (non confini) del '49. E, reciprocamente: cercare di costituire uno "Stato palestinese" dove non c'è mai stato uno Stato né una nazione palestinese (ma solo l'occupazione giordana non riconosciuta dal mondo, il Mandato britannico il cui scopo ufficiale era favorire l'insediamento ebraico in una "patria" o "Jewish home", il lungo dominio imperiale turco), vuol dire cercare di restaurare la situazione precedente alla Guerra dei Sei Giorni. E cioè riavere uno Stato ebraico precario, bisognoso di protezione, incerto di sé e del suo futuro. E anche avere una situazione di guerra permanente. Perché dopo il '73, da quando cioè fallì l'ultimo tentativo arabo di rovesciare i risultati del '67, non ci sono state più guerre vere e proprie contro Israele: solo terrorismo e singole operazioni localizzate (in Libano, a Gaza) per distruggerene le infrastrutture e dissuaderlo.
Perché si vuole questo? Perché non si dice agli arabi dell'Autorità Palestinese che hanno già uno stato "palestinese" che è la Giordania? Perché si alimenta solo contro Israele il revanscismo (la volontà di "revanche" cioè di rivincita, che ha devastato l'Europa fra Otto e Novecento e oggi vi è assolutamente proibita)? Perché lo fanno non solo gli arabi, e questo si capisce per via della loro ideologia musulmana del bottino, per cui il territorio conquistato dev'essere loro per sempre, e non solo i russi, che dall'Urss in poi detestano i paesi democratici, e non solo il Vaticano, che non ha rinunciato all'apirazione di controllare Gerusalemme, ma anche l'Europa e metà (quella democratica, inclusi molti ebrei) del mondo politico americano? E' difficile capire le ragioni di tanta masochistica follia. Perché c'è chi tiene a dire, con acrobazie semantiche, che Gerusalemme nel '67 non fu liberata ma solo "unificata"?
Difficile capirlo. Io ho un'ipotesi. Nell'inconsio collettivo certe formazioni ideologiche restano stabili a lungo, anche dopo che sono state ufficialmente bandite. Che gli ebrei, negando il messianesimo di Gesù, debbano se non essere obbligati per l'eternità all'esilio (der ewige Jude, l'eterno ebreo è anche un wandernde Jude, ebreo errante) almeno non avere il controllo di Gerusalemme è un tema che la Chiesa ha diffuso per diciassette secoli. E questo ebreo privo di patria deve però essere protetto, può essere massacrato, sempre messo in pericolo, ma non completamente distrutto e sterminato. Anche questo è un tema cristiano, che si diffonde a partire da Agostino di Ippona. Oggi nessuno nella Chiesa dice queste cose, ma la traccia, io credo, è ancora presente. E' questa traccia che è stata sconfittà dalla frase trasmessa da una radio di campo la mattina del 7 giugno: "Har haBait be jadenu", abbiamo il Monte del Tempio nelle nostre mani. Cinquant'anni fa e, speriamo, per sempre.
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