Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 05/06/2017, a pag. 5, con il titolo "In tre contro una donna: il volto dell'islam", l'analisi di Fiamma Nirenstein; a pag. 4, con il titolo "Dalla Libia alla jihad fino all'Italia: c'è un filo rosso che lega i terroristi", l'analisi di Fausto Biloslavo; dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-26, con il titolo "Le parole per dirlo", l'editoriale di Paolo Mieli; dalla STAMPA, a pag. 6, con il titolo "Il Califfo lancia l' 'Intifada d'Europa' ", il commento di Giordano Stabile.
Ecco gli articoli:
IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "In tre contro una donna: il volto dell'islam"
Fiamma Nirenstein
È solo disgustoso, non stupefacente, che i tre jihadisti dell'attacco di Londra si siano avventati con i loro coltelli sguainati, crivellandola di colpi, su una donna indifesa nella folla. Una povera donna mai vista prima, certo, ma con due terribili difetti: il primo di essere occidentale, il secondo di essere una donna. Il disprezzo per le donne l'abbiamo visto all'opera in mille forme, un uomo che si avventa su una donna riempiendola di botte e urlandole le peggiori cose esiste a tutte le latitudini e può essere cresciuto con qualsiasi ideologia. Ma la sessuofobia islamista insegna a vedere la donna come un essere inferiore, stabilisce che ci vogliono due donne per essere alla pari con la testimonianza di un uomo in tribunale, pratica per legge divina la poligamia che ormai ha invaso anche, in segreto molte capitali europee, spesso opera l'escissione, costringe la donna a una vita terribile, velata, nascosta, e sovente la travolge in una terribile morte. Tutto il mondo ricorda come la piccola Malala fu ritenuta degna di morire a 14 anni da un telebano che le sparò in testa (per fortuna la scampò) solo perché si era permessa di ambire a un'educazione; tutti sanno che la condanna a morte per chi tradisca le leggi tribali della famiglia e desideri vivere a modo suo provenendo da un mondo islamico comportino sovente la pena del sangue approvata da tutta la famiglia, compreso, spesso, le madri assoggettati e obnubilate.
La donna porta nella sua carne il peggiore di tutti i peccati, la sessualità che è il segno del demonio: vedere una donna occidentale e avventarglisi addosso coi coltelli non è più grave dello stabilire che essa, come fanno gli uomini dell'Isis, può essere venduta e comprata a piacimenti, usata come schiava sessuale solo che sia una donna jazida o di altri culti: la ferocia del maschio islamista la rende meno di un oggetto, la trasforma in una proprietà che deve essere picchiata dal marito. Quanto può essere battuta è oggetto di discussione teologica, come lo è quanto sia abbassabile l'età infantile delle bambine costrette a sposare uomini adulti. Una terribile sfilata di signori vestiti da sposo ciascuno affiancato da una bambina vestita di bianco fu pubblicizzata qualche anno fa a Gaza, ed è un uso proprio di gran parte dell'universo islamico, in Asia e in Africa.
Una donna occidentale, che veste abiti che ne rendono visibile il corpo peccaminoso, che è libera di parlare con tutti, di dare la mano a chi incontra, di lavorare, persino di camminare da sola insieme al suo ragazzo o comunque al suo partner, che potrebbe persino non essere suo marito e a camminare con una sua mano su una spalla... Che cosa può esserci di più abominevole? Quale miglior boccone per un terrorista? Persino le donne terroriste suicide, come'è successo tante volte in Israele, vanno cariche di tritolo a farsi saltare per aria, ma sempre accompagnate da un uomo che ne controlli la castità fino all'ultimo istante. I tre terroristi non hanno agito diversamente da chi da una folla informe e spesso ridacchiante, getta pietre in Arabia Saudita su una sposa che sia stata ritenuta infedele. La jihad odia le donne, a meno che non possa usarle come pupattole dal corpo cancellato, destinate a riprodursi e a faticare in silenzio, a meno che non siano delle plagiate che si avviano come pecore al macello, come è accaduto a tre sorelle londinesi che si sono perse nel nulla della follia islamista in Siria. E viene sempre anche il momento in cui pagano le loro scelte. Non solo l'Inghilterra deve decidersi a difendere ovunque le sue donne prima che la fobia islamica le attacchi, come è accaduto a Colonia e in tante altre città europee, ma tutto il mondo civile. La lotta a difesa delle donne è parte della guerra al terrorismo.
IL GIORNALE - Fausto Biloslavo: "Dalla Libia alla jihad fino all'Italia: c'è un filo rosso che lega i terroristi"
Fausto Biloslavo
Un filo rosso che porta in Libia lega gli attacchi di Manchester, Berlino, Parigi e Bruxelles al gruppo jihadista di veterani della guerra santa, che hanno vissuto a lungo in Italia. Per l'ennesima strage di Londra è ancora troppo presto ipotizzare un collegamento, ma l'intelligence si aspettava un nuovo attacco dopo la strage al concerto di Ariana Grande. Ieri il New York Times ha rivelato che Salman Abedi, il kamikaze di Manchester, si era visto in Libia con terroristi dello Stato islamico collegati all'attacco a Parigi del novembre 2015. Uno degli incontri sarebbe avvenuto a Sabrata, ex roccaforte delle bandiere nere, 60 chilometri ad ovest di Tripoli, dove sarebbero ancora presenti cellule del Califfato. A Sabrata bombardata nell'aprile dello scorso anno dai caccia americani avevano messo radici i tunisini Nouruddine Chouchane e Moez Fezzani.
Due pezzi grossi jihadisti legati alla khatiba (brigata) Al Battar al Libi fondata da veterani libici dell'Irak e dell'Afghanistan, che in Siria ha attirato i volontari della guerra santa francesi e belgi responsabili delle stragi di Parigi e Bruxelles. Chouchane sarebbe stato ucciso nel raid Usa, anche se le prove non sono certe e si teme che utilizzi la notizia come paravento per continuare a pianificare il terrore. Sicuramente ha vissuto per cinque anni a Novara facendo il manovale. Le ultime tracce italiane risalivano al 2012, ma nel 2015 il ministro dell'Interno ha emesso un decreto di espulsione nei confronti di Chouchane per «motivi di sicurezza nazionale». Il capo jihadista è ricercato come mandante della strage dei turisti al museo del Bardo a Tunisi, che ha causato la morte anche di 4 italiani. Fezzani, nome di battaglia Abu Nassim, ha vissuto per anni in Lombardia prima di partire per la guerra santa. Gli americani lo avevano catturato in Afghanistan rimandandocelo in Italia nel 2009. Tre anni dopo è stato incredibilmente assolto in primo grado dall'accusa di terrorismo ed espulso. In seguito lo abbiamo condannato a sei anni di carcere, ma era già libero in Tunisia da dove è partito per la Siria alla guida proprio della brigata Al Battar, che ha giurato fedeltà al Califfo. Nel novembre dello scorso anno Fezzani è stato catturato in Sudan ed estradato a Tunisi. Secondo una fonte di intelligence europea del New York Times, la brigata Al Battar aveva attirato in Siria gli estremisti di Sharia4 Belgio ed i combattenti francesi.
Fra questi c'era Abdelhamid Abaaoud, il capo della cellula che ha colpito a Parigi. Lo stesso Fezzani avrebbe ispirato il video di rivendicazione degli adepti belgi di Sharia4 da Raqqa, «capitale» siriana dello Stato islamico, per l'attacco di Bruxelles. Il leader jihadista che parla italiano dalla Siria si è trasferito in Libia a Sabrata, dove il giovane comandante Chouchane aveva impiantato un campo di addestramento per i terroristi del Bardo e della spiaggia tunisina di Sousse. Il filo rosso da Parigi a Manchester è legato anche dal tipo di ordigni usati, che non sono stati confezionati dai kamikaze. L'artificiere è lo stesso e l'antiterrorismo inglese gli sta dando la caccia, ma l'esperto bombarolo potrebbe trovarsi in qualsiasi paese europeo. Non solo: sul cellulare del tunisino Anis Amri, che lo scorso dicembre ha seminato morte e distruzione nel mercatino natalizio di Berlino, sono stati trovati due numeri libici. Secondo i servizi tedeschi Bnd erano cellulari collegati allo Stato islamico. «Le istruzioni di Amri sono arrivate dalla Libia non dalla Siria» sostiene Peter R. Neumann, direttore del Centro internazionale sulla radicalizzazione del King's college di Londra. E, guarda caso, Amri era in fuga in Italia quando è stato ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia a Sesto San Giovanni.
CORRIERE della SERA - Paolo Mieli: "Le parole per dirlo"
Paolo Mieli - Elisabeth Badinter
Dice Theresa May, premier britannico, che «quando è troppo è troppo». E il ministro degli Esteri Boris Johnson promette che «ai terroristi non sarà consentito di distruggere la nostra democrazia». Per poi aggiungere: «Oggi milioni di londinesi continueranno la loro vita, andranno al pub, al museo, nei parchi, a vedere spettacoli e questa sarà la miglior risposta». Quante volte abbiamo ascoltato queste parole? In genere il leader di turno conclude con annunci di «reazioni durissime». «Spietate» specificò l’allora presidente francese François Hollande il 13 novembre 2015 dopo la strage del Bataclan. e il saggista inglese Niall Ferguson così commentò: «Non gli credo … questa l’ho già sentita, poi in genere quando la situazione comincia a girare per il verso sbagliato ecco che su entrambe le sponde dell’Atlantico emergono le riserve dell’opinione pubblica … Altro che spietati, quando lo siamo stati davvero nei nostri Paesi si gridava allo scandalo». Effettivamente la prima cosa che una donna o un uomo di governo dovrebbero fare nei minuti successivi a un attentato come quello di sabato notte al Borough Market è pronunciare sì parole di cordoglio ma evitare di promettere ritorsioni che tutti sappiamo non essere praticabili.
Ci basta sapere che negli ultimi mesi in Gran Bretagna su otto attentati ne sono andati a segno solo tre e gli altri sono stati sventati. E sarebbe più saggio non dare l’illusione che da adesso in poi, grazie a chissà quale svolta, di atti terroristici non ne vedremo più. E meglio ancor più, raffinare le analisi di un fenomeno che ci accompagnerà per chissà quanti anni ancora. Sotto questo profilo fu più efficace il predecessore della May, David Cameron, che in due importanti discorsi (giugno e luglio del 2015, il primo in Slovacchia, il secondo a Birmingham) chiese agli islamici inglesi cosa avrebbero fatto per aiutare le autorità di polizia a combattere i terroristi, ricordò che musulmani venivano sistematicamente uccisi da altri musulmani e spiegò come, a parer suo, fosse sbagliato continuare a dire che «l’integralismo è frutto dei nostri errori o della povertà». La guerra al terrorismo oggi, eccezion fatta per coloro che indossano una divisa, andrebbe combattuta principalmente sul piano culturale.
Ed è un conflitto tra noi e noi, prima ancora che tra noi e «loro». Il confronto militare con «loro», cioè con Daesh, ha tempi più lunghi di quelli che – sprovvisti di un’adeguata conoscenza – siamo stati indotti a supporre. Ne è riprova la «liberazione» di Mosul iniziata lo scorso 17 ottobre e presentata all’epoca sui media come qualcosa che sarebbe stata portata a termine nel giro pochi giorni. Adriano Sofri che ha seguito la vicenda sul campo già in novembre aveva puntato l’indice contro «un giornalismo mediamente cialtrone» che aveva dato Mosul per conquistata già a fine ottobre «quando la forza speciale antiterrorismo irachena era appena entrata nei sobborghi della sponda est del Tigri, la meno difendibile da parte dell’Isis». Dopodiché l’avanzata non aveva fatto sostanziali passi avanti e a volte ne aveva «fatti indietro». Questo a metà novembre. Siamo a giugno e Mosul non è stata ancora definitivamente liberata. Ma, dicevamo, ciò che ci compete non è improvvisarci strateghi militari né a Mosul, né qui in Europa. Chi sostiene di avere soluzioni militari pronte per l’uso – sia qui che lì – è un ingenuo semplificatore o, peggio, un imbroglione. L’unica cosa che possiamo fare (e che ci compete) è approfondire la discussione sulle categorie a cui facciamo ricorso per affrontare una questione – quella del radicalismo islamico – che ormai ci accompagna da oltre un quindicennio. Qui sembra che il Paese che, sotto questo aspetto, ha fatto più passi avanti sia la Francia.
Si pensi a Gilles Kepel che fece notare come l’ottantaseienne sacerdote Jacques Hamel fosse stato sgozzato nel luglio scorso a Saint-Étienne-du-Rouvray (Rouen) da un diciannovenne. Un ragazzo che aveva appena trascorso un anno in carcere per aver cercato di andare in Siria e che era stato da poco liberato per buona condotta. Quando entrò in prigione – ha sottolineato Kepel – quel ragazzo non sapeva quasi nulla della Jihad, ma ne è uscito islamizzato dalla testa ai piedi e con la volontà di uccidere. Si pensi a Jean Birnbaum il quale ha scritto che a confonderci le idee sono in campo due illusioni complementari: la sinistra vede gli jihadisti come poveri; la destra li confonde con gli immigrati. Ma l’essenza della religione è quella di essere senza paese o confini. Il Jihadismo è una causa la cui influenza è così potente che può inghiottire un giovane cresciuto nella campagna francese o uno studente brillante che proviene da una famiglia cristiana. Birnbaum, nel libro « Un silence religieux. La gauche face au djihadisme » (Seuil) ha definito «rienavoirisme» la tesi secondo cui il terrorismo islamico non ha niente a che vedere («rien à voir») con la religione.
Polemizzando sia pure velatamente con papa Francesco. In Francia si è più discusso sul «ricatto dell’islamofobia»: così lo ha definito Alain Finkielkraut per il quale il concetto è ricalcato su quello di antisemitismo, sicché non se ne riesce a capire la specificità. Di più, sostiene Finkielkraut che tale «analogia occulta la realtà eclatante dell’antisemitismo islamista». Quando a Colonia a Capodanno del 2016 gruppi di ragazzi musulmani molestarono ben mille e duecento donne di ogni età in un’azione evidentemente coordinata, in Francia ci fu chi cercò di minimizzare. Elisabeth Badinter in quell’occasione definì «scioccante» tale «negazione da parte di alcune femministe militanti francesi che hanno preso le difese degli aggressori anziché delle vittime». «Sono quasi trent’anni - disse apertamente - che cediamo spazi all’islam radicale per paura di passare per islamofobi… Siamo sempre stati zitti perché c’è il terrore di fare il gioco dei razzisti e dei partiti di estrema destra». Ed è sbagliato: «È negando la realtà che si nutrono razzismo ed estrema destra e che si perde la fiducia della gente». Secondo il filosofo Michel Onfray il termine «islamofobia» sarebbe addirittura da bandire. Non corrisponde a niente di realmente esistente, sostiene Onfray, nel libro Penser l’Islam , «è un concetto polemico utilizzato per impedire ogni riflessione sull’islam che non sia un pensiero di reverenza».
Siamo in presenza di un anti-islamista militante? No. Lo scorso settembre Onfray dichiarò alla televisione Russia today che il fatto che la comunità musulmana fosse in collera contro l’Occidente gli sembrava «del tutto legittimo; l’Occidente dice di attaccare per proteggersi dal terrorismo – proseguiva Onfray – ma crea il terrorismo attaccando». E una sua frase, «dovremmo smetterla di bombardare le popolazioni musulmane», finì addirittura in un video Isis di rivendicazione degli attentati di Parigi. Abbiamo l’impressione che le proclamazioni stentoree non si accompagnino, in genere, a discussioni approfondite. Anzi, spesso è l’opposto. Coloro che ad ogni attentato incitano a continuare a vivere come si faceva prima e nel contempo annunciano l’uso, «da questo momento», di maniere forti (non si sa né dove, né contro chi) dicono cose che da tempo hanno perso di senso. Meglio affidarci a chi non offre soluzioni e propone riflessioni. Almeno, forse, faremo qualche passo avanti e non rimarremo inchiodati al punto in cui siamo fermi da anni.
LA STAMPA - Giordano Stabile: "Il Califfo lancia l' 'Intifada d'Europa' "
Giordano Stabile
Un flusso continuo di suggerimenti, aggiornamenti, indicazioni «operative» per sostenere la campagna di Ramadan dello Stato islamico. È il «protocollo d’azione» studiato da propagandisti del Califfo al-Baghdadi e che i suoi seguaci, dall’Inghilterra alle Filippine, stanno seguendo alla lettera. Le tecniche vanno dall’uso dei coltelli, agli esplosivi, a come appiccare un incendio devastante, secondo quella che gli islamisti sul Web ormai chiamano «Intifada in Europa», un guerra assimetrica dove il rapporto costi-effetti è a favore dei terroristi.
Il doppio attacco di Londra ha seguito il protocollo in molti dettagli. Pochi giorni fa sulla piattaforma islamista An-Nur è apparso per esempio il suggerimento di indossare «false cinture da kamikaze» nel caso fosse difficile procurarsi esplosivo, per aumentare il panico e rallentare la reazione delle forze dell’ordine. L’esecuzione degli attentati ricalca invece le linee guida illustrate in un articolo dell’ultimo numero del mensile «Rumiyah», intitolato «Semplici tecniche di terrore». Anche questo si rivolgeva a islamisti che vivono in Occidente e in particolare, come nel caso della Gran Bretagna, in Paesi dove è difficile procurarsi armi da fuoco, ma è sempre possibile uccidere gli infedeli «con le lame che penetrano nei loro corpi, veicoli che improvvisamente salgono sui marciapiedi affollati». L’articolo portava come esempio recente quello di Masood a Westminster ma anche altri più indietro nel tempo, come l’attacco di Couture-Rouleau in Canada.
L’impossibilità di procurarsi armi «non esclude dall’ottenere l’immensa ricompensa prevista per chi uccide i nemici di Allah» anche se l’articolo ammette che per chi vive in Occidente «è più difficile». Una regola fondamentale è allora la «dissimulazione». L’aspirante martire deve condurre una vita più normale possibile, mostrarsi allegro e ottimista, farsi amici fra i «kuffar», i miscredenti. La dissimulazione serve ai preparativi dell’attacco. Nel caso di attacchi con veicoli, il camion o il furgone può «essere preso in prestito da un kuffar», per dare meno nell’occhio. In alternativa può essere acquistato. Se lo si noleggia meglio farlo «subito prima» dell’attacco.
È il caso del furgoncino utilizzato per l’attacco al London Bridge, che era stato noleggiato da poco dai terroristi. I bersagli da colpire, a seconda che si usino coltelli o veicoli sono «night club, cinema, centri commerciali, ristoranti affollati, sale da concerto, campus universitari». In caso di attacchi in luoghi chiusi è bene «tenere alcune vittime in vita per usarli come scudi umani» nei confronti delle forze di sicurezza. In un numero precedente di Rumiyah si «consigliava» anche l’uso di attacchi incendiari, poi applicati in almeno due casi in Russia, e forse a Manila quattro giorni fa.
A parte le pubblicazioni principali, molti dei «suggerimenti» circolano sul cosiddetto «Dark Web» e su circuiti chiusi, come i forum su Telegram. L’intento è sempre meno propagandistico, il che fa dell’uso criminale del Web «un’arma», come ha avvertito fra gli altri l’islamologo ed esperto di terrorismo Romain Caillet.
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