La Guerra dei Sei giorni nell'analisi accurata di Antonio Donno sul ruolo dell'URSS, un pericoloso protagonista tutt'altro che secondario, a pag.2 del FOGLIO di oggi, 03/06/2017. Dalla STAMPA due servizi di Fabio Scuto sui protagonisti 50 anni dopo, immortalati dal fotografo David Rubinger accanto al Muro Occidentale appena liberato, più una intervista che ci fa capire il pericoloso vuoto di intelligence che ha sempre contraddistinto la Giordania.
Il Foglio-Antonio Donno:" L'ambiguo ruolo di Mosca nella guerra arabo-israeliana del 1967 "
Antonio Donno
Il 14 maggio 196'7 le forze egiziane furono messe nel più alto stato di allerta. Nello stesso giorno, il capo di stato maggiore egiziano, il generale Muhammad Fawzi, si recb a Damasco per coordinare una risposta all'imminente attacco delle forze israeliane, ma dovette constatare con sorpresa che non v'era alcuna mobilitazione israeliana ai confini meridionali della Siria. L'allarme che Mosca aveva dato ai siriani sulla concentrazione di Forze armate di Israele lungo la linea del Golan era falsa. Lo stesso Fawzi scrisse nelle sue memorie: "Da quel momento in poi, cominciai a pensare che l'informazione circa la concentrazione di truppe israeliane lungo il confine siriano non fosse [...] la sola o la principale causa del dispiegamento militare che l'Egitto stava effettuando con tanta rapidità". Le esplicite affermazioni di Fawzi sarebbero sufficienti a chiudere il discorso sulle responsabilità arabe nello scoppio della guerra del 1967. Lo scrive Efraim Karsh, ora direttore del Begin-Sadat Center for Strategic Studies di Tel Aviv in un lungo articolo pubblicato il 19 maggio scorso sul sito del Besa Center. Dunque, Mosca aveva dato agli arabi un'informazione sbagliata. Perché? E' possibile che Mosca avesse accertato una realtà inesistente o Mosca aveva tutto l'interesse a spingere i suoi alleati arabi a un'ennesima guerra contro Israele? L'unico dato vero nella situazione di quel tempo — c'è da aggiungere — è che l'Unione sovietica era interessata a dare sostanza, anche militare, alla sua alleanza con alcuni paesi arabi che si definivano alquanto enfaticamente esponenti di un sedicente "socialismo arabo". Nel fare questo passo, Mosca si accollava una responsabilità pesantissima, anche in considerazione del terribile smacco politico che avrebbe guadagnato in caso di sconfitta dei suoi alleati. I sovietici si fidavano dei possenti aiuti militari che avevano dato a egiziani e siriani e si fidarono — ingenuamente, è il caso di dire — degli arabi. Il risultato fu catastrofico, sia militare per gli arabi, sia politico per Mosca. Nasser fu informato da Fawzi, ma ignorb l'informazione. Il dado era ormai tratto. Nasser aveva l'ambizione, coltivata da molto tempo, di divenire il rais incontestato del mondo arabo e i sovietici erano completamente d'accordo. Il blocco siro-egiziano vincente, sotto l'ombrello sovietico, avrebbe messo a mal partito i paesi arabi filo-occidentali (Giordania e Arabia Saudita), messo alle strette gli Stati Uniti e rimodulato l'assetto del medio oriente a favore dei sovietici e dei loro alleati arabi. Vera o falsa che fosse l'informativa sovietica, era il momento di vendicare la sconfitta del 1948 e quella del 1956 da parte di Israele. La guerra, percib, era inevitabile, perché gli arabi, e Nasser in particolare, la volevano. In un editoriale di al Ahram del 26 maggio, il direttore scriveva a chiare lettere che la guerra era inevitabile e che Nasser prevedeva che Israele avrebbe attaccato entro le quarantotto-sessantadue ore; qualche giorno prima, il 22 maggio, in un discorso pubblico, Nasser aveva dichiarato: "Il nostro principale obiettivo sarà la distruzione di Israele. [...] Allah ci aiuterà certamente a ripristinare lo status quo antecedente il 1948". Purtroppo per gli arabi — e per i sovietici, che per() non credevano in Allah — le cose non andarono così. Lo scrittore egiziano Naguib Mahfouz, premio Nobel nel 1988— riferisce, a questo proposito, Karsh — ha scritto: "Quando Nasser tenne pomposamente la sua famosa conferenza-stampa, prima della guerra del giugno 1967, credetti che la vittoria su Israele fosse garantita. La ritenni una semplice passeggiata verso Tel Aviv, di ore o al massimo di giorni, perché ero convinto che saremmo divenuti la più grande potenza militare in tutto il medio oriente".
La Stampa-Fabio Scuto:" I ragazzi del '67 che presero Gerusalemme Est"
Haim Oshri,Zion Karasenti ,Yitzhak Yifat Fabio Scuto
nella foto di David Rubinger
La foto iconica di David Rubinger che ritrae tre paracadutisti israeliani in soggezione e con gli occhi lucidi davanti al Muro del Pianto, è l'immagine che definisce la Guerra dei Sei Giorni, in uno dei momenti più significativi della storia di Israele. Quei tre «ragazzi del 67», il cui volto fece il giro del mondo, sono oggi tre gagliardi settantenni che in questi giorni di celebrazioni del cinquantesimo anniversario si sono ritrovati ancor più emozionati di quel giorno di giugno di cinquanta anni fa. Haim Oshri, è diventato un chimico la cui ricerca è stata fondamentale nella produzione casearia, Zion Karasenti un affermato coreografo. Yitzhak Yifat, che dopo la guerra si laureò in Medicina e ha esercitato come ginecologo, ripercorre con la memoria quel giorno. «Eravamo attestati sul Monte degli Olivi e il giorno prima avevamo affrontato con due compagnie scelte dell'esercito giordano un feroce combattimento finito corpo a corpo sulla Collina delle Munizioni. Ho evitato per un pelo di essere trafitto da una baionetta giordana», racconta Yifat mentre mostra una cicatrice sul volto. La mattina seguente, il 7 giugno, i paracadutisti israeliani scoprirono che la maggior parte delle truppe giordane si era ritirata da Gerusalemme. Il governo israeliano, a lungo diviso sulla decisione, alla fine diede l'ordine di attaccare e conquistare la Città Vecchia. Il comandante Motta Gur annunciò a Yifat e ai suoi commilitoni: «Entreremo a Gerusalemme, e saremo i primi a ebrei a farlo da decenni». I parà israeliani della 668 divisione, racconta Yifat, scesero dal Monte degli Ulivi attraverso il più antico cimitero ebraico del mondo, l'Orto dei Getsemani, per arrivare alla Porta dei Leoni da dove sfidarono le difese e penetrarono oltre le Mura. «C'era un inteso fuoco dei cecchini giordani e arabi, i colpi rimbalzavano sui muri, una pioggia di piombo, noi alla fine eravamo dei riservisti e un combattimento vero fino a quei giorni non l'avevamo mai visto». Siamo passati dentro un diluvio di fuoco e dopo aver sfondato la barricata che ostruiva la Porta dei Leoni ci siamo precipitati dentro, attraverso i vicoli stretti». Dal momento che nessuno dei parà era mai stato al Muro del Pianto prima, perché era sotto il dominio giordano dal 1948, Yifat racconta che in un primo momento nessuno sapeva fosse esattamente e nessuno era davvero sicuro di aver conquistato la «cosa» giusta: «Tutti parlavano del Kotel (il Muro del Pianto in lingua ebraica) ma noi eravamo nuovi e non eravamo mai stati fi prima. A quel tempo poi c'era solo uno stretto vicolo, che separava quelle pietre dagli edifici della città vecchia nelle vicinanze». In quel momento il comandante Motta Gur via radio annunciò al comando israeliano, al generale Yitzhak Rabin, al ministro della Difesa Moshe Dayan, dove si trovava. Pronunciando una delle frasi divenute più celebri nella storia di Israele: «Har Habayt Hu Beyadeinu» (Il Monte del Tempio è nelle nostre mani). «Noi in quel momento eravamo davvero in grande confusione emotiva, stavamo ridando al popolo di Israele quello che aveva atteso per 2000 anni. Difficile dare parole a quelle emozioni, i miei compagni piangevano, c'era chi pregava. Quando toccammo quelle incredibili pietre del Muro fu una sensazione divina».
La Stampa-Fabio Scuto:" Se la Giordania non avesse partecipato saremmo diventati i traditori degli arabi "
Ottima l'intervista di Fabio Scuto a Samir Mutawi, le cui risposte ci fanno capire come la Giordania non abbia mai brillato in quanto a intelligence, sempre dalla parte sbagliata. Sopravvive grazie alla presenza di Israele, a cui fa doni avvelenati, come il rivestimento giallo della moschea sul Monte del Tempio.
Samir Mutawi
" In tutti i Paesi arabi la gente si riversava nelle piazze partecipando a grandi manifestazioni. Gli avvenimenti si susseguivano allora in modo molto impetuoso, il popolo arabo sembrava volere la guerra, non solo in Giordania ma ovunque: a Beirut, a Bagdad, a Damasco, a Riad. Persino Algeria e Marocco offrirono aiuti militari». Samir Mutawi, giornalista, accademico, ex ministro e confidente di re Hussein, nella sua elegante casa di Amman ripercorre quei giorni drammatici. «Sembrava di essere travolti da un flume in piena, tutti erano convinti che le forze arabe sarebbero state in grado di liberare la Palestina». Se Nasser non aveva intenzioni belliche, la Giordania fu trascinata nel conflitto, la Siria non era pronta. Allora com'è che si arrivò alla guerra? «Nasser, che ambiva a guidare il mondo arabo, non voleva la guerra, era un bravo manipolatore. La chiusura dello Stretto di Tiran, era una manovra politica, un azzardo che gli sfuggì di mano e lo sviluppo degli eventi fece inevitabilmente scivolare la crisi II popolo arabo sembrava volere la guerra, non solo in Giordania ma ovunque, da Beiruta Baghdad, da Damasco fino a Riad Samir Mutawi Giornalista , accademico ed ex ministro di re Hussein di Giordania 99 verso il conflitto». Fra i leader arabi dell'epoca c'era una feroce competizione e una sincera mancanza di fiducia reciproca. Cosa spinse il suo re ad aderire a quell'alleanza? «Chiesi personalmente a sua maestà, dopo il conflitto, se avesse potuto evitare l'entrata in guerra della Giordania. "Eravamo a un bivio", mi rispose, "combattere insieme agli altri arabi oppure rimanere fermi a guardare. Se avesse vinto il fronte guidato da Nasser i giordani sarebbero stati accusati di collaborazionismo e tradimento, al contrario se avessero perso avrebbero attribuito la sconfitta alla mancata partecipazione. La guerra era l'unica nostra scelta"». Dev'essere stato un colpo terribile per il sovrano l'esito della guerra. La sua dinastia dopo aver perduto i primi due luoghi santi dell'Islam come Mecca e Medina a favore degli Al Saud, aveva perduto anche il terzo: Gerusalemme. «Re Hussein il 30 maggio volò, guidando personalmente il suo Constellation, fino al Cairo per incontrare Nasser e firmò, pochi giorni dopo la Siria, un patto di mutua difesa. Con quest'accordo si impegnava a mettere la Legione Araba in caso di conflitto al comando di un generale designato da Nasser. Quando la guerra scoppiò - con quell'inizio tragico e travolgendel Moneim Riad si rifiutò di mettere in atto i piani per la difesa di Gerusalemme e della Cisgiordania che erano stati approntati dal nostro comando precedentemente». Nasser nascose al sovrano la realtà per i primi due giorni di guerra. Ad Amman non avevate altre fonti di informazione? «Mettendo la Legione araba sotto il comando egiziano avevamo perso anche le linee di comunicazione interne. Passarono 24 ore tra l'ordine di ritirata delle truppe egiziane nel Sinai e quando ciò venne comunicato al sovrano direttamente da Nasser. Fu un ordine sciagurato, senza un piano di ritiro, senza la minima organizzazione, che lasciò sola la Giordania». In che senso? «Mentre i nostri soldati stavano cercando di tenere delle posizioni in Cisgiordania e a Gerusalemme, il fronte egiziano si stava dissolvendo, la Siria non era mai davvero scesa in campo. L'esercito giordano era rimasto solo e iniziò a ritirarsi». La guerra più breve del XX secolo poteva durare ancor meno di sei giorni? «L'esito della guerra era già stato segnato nelle prime tre ore di conflitto con la distruzione al suolo delle forze aeree egiziane. Poi toccò all'aviazione giordana e infine a quella siriana, poco prima delle due pomeridiane del 5 giugno la forza aerea araba aveva già cessato di esistere. Non si vince una guerra senza il controllo dei cieli».
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