Riprendiamo da SHALOM di maggio 2017, a pag. 14, con il titolo "Circondata dall’odio ma forte nel costruire il suo futuro", l'analisi di Fiamma Nirenstein.
Fiamma Nirenstein
Sulla soglia del 69esimo anno di età dello Stato d’Israele penso al nostro destino, il destino di un popolo che combatte in mille modi diversi per la sua sopravvivenza da tremila anni, e che nel secondo scorso ha conosciuto quasi la sua cancellazione e poi la sua meravigliosa rinascita con lo Stato d’Israele. Oggi la battaglia continua, ma siamo molto più attrezzati, più forti, fiduciosi nella nostra forza e nella bontà dei nostri fini. Scrivo a pochi minuti dalla sirena che ricorda i nostri caduti, più di ventimila, il sale d’Israele, ragazzi, figli nostri, combattenti generosi che hanno dato la vita uno per l’altro e per tutto il popolo ebraico da quando lo Stato è stato fondato con un atto di incredibile sfida e insieme di saggezza profonda da parte di Ben Gurion nel 1948 a fronte di una guerra che poteva di nuovo essere di sterminio. Invece, abbiamo vinto. E seguitato a vincere quando non lo si credeva possibile. Fra 24 ore dal momento in cui scrivo, la sirena chiamerà a festeggiare il Giorno dell’Indipendenza, Yom Atzmaut.
La complessità dello scenario richiede molta concentrazione: se si guarda agli eventi di questi ultimi giorni ci si offre un prisma della situazione sfaccettato fino all’incredibile. Niente si è semplificato, ma la nostra forza è certamente aumentata. Siamo oggi, in Israele, 8 milioni e 680mila persone, il 20 per cento arabi, un po’ meno del 5 per cento cristiani non arabi e altri di religioni varie. Nel 1948 c’erano 11 milioni e mezzo di ebrei nel mondo di cui solo il 6 per cento viveva in Israele, nel 2015 14 milioni e 141mila persone, di cui il 43 per cento in Israele. Nel 2048, a cent’anni, Israele avrà 15 milioni di abitanti. Paese interamente occidentale nei costumi democratici, nell’economia, nel livello sociale, della salute, del benessere della popolazione, campione nei premi Nobel e nell’high tech, in Israele nasce un numero di bambini straordinario, per cui l’anno scorso ci sono state ben 174mila nascite e sono state registrate 44mila morti. Il trend opposto rispetto all’Europa e agli USA. Tre quarti degli israeliani sono sabra, nonostante l’aliah sia in crescita: quest’anno 30mila persone hanno scelto Israele. La situazione strategica è complicata. Prendiamo un esempio.
Qualche giorno fa Israele è stata accusata di aver sparato contro obiettivi siriani nel corso della notte, colpendo un aeroporto, i velivoli che vi si trovavano e il giorno dopo atterrando un drone che aveva sconfinato nei cieli israeliani dalla Siria. La ragione, sempre che come sembra sia stato Israele a colpire, è cogente: l’Iran che combatte insieme agli hezbollah al fianco di Assad sul territorio siriano con il supporto russo, rifornisce di decine di migliaia di missili i nemici più pericolosi di Israele, gli hezbollah, che controllano il confine siriano e libanese, ormai coadiuvati nelle loro cattive intenzioni da truppe iraniane. Israele cerca di impedire questo pericolo strategico, e quando le consegne si fanno eccessive ferma i convogli e i voli che consegnano i missili, di cui ormai pare che gli hezbollah ne abbiano più di 200mila.
Ma in Siria agisce la Russia, con cui Israele è in pacifico colloquio strategico indispensabile, come si vede anche dal fatto che Benjamin Netanyahu ha intrattenuto vari colloqui con Putin. Si tratta di riuscire a impedire l’allargamento strategico del conflitto, intervenendo tuttavia con le armi quando ce ne sia bisogno. Una danza sull’abisso slabbrato dello scontro siriano, delle stragi orribili da ambo le parti, e in cui Israele ha cercato di intervenire solo con i propri medici e con un ospedale da campo che cura i feriti delle due parti; ma Assad dichiara con Nasrallah, il capo degli Hezbollah, che presto verrà la terribile vendetta e la Russia per ora tace. Facile? La prospettiva di Israele è consolidare, anche con l’intervento degli Stati Uniti, del cui presidente Trump è prevista la visita per il prossimo 12 maggio, il dialogo con i Paesi arabi sunniti moderati. Anche Trump vuole intraprendere questa strada, sapendo che i sunniti sono preoccupati del terrorismo che nasce dall’ISIS nel loro stesso seno e si espande creando pessimi rapporti dei musulmani col mondo intero, e soprattutto dalla presenza imperialistica sciita dell’Iran in ormai cinque Paesi mediorientali: ormai essi vedono quindi nel rapporto con Israele un interesse strategico che travalica il solito confine del conflitto palestinese. Di fatto, nonostante i mille pericoli sul confine, Israele gode di una prospettiva strategica migliorata, in cui hanno giocato agevolmente anche le visite di Netanyahu per il mondo, in Africa, in Asia: nuove alleanze economiche e strategiche si disegnano anche nella comune lotta al terrorismo.
Anche in Europa si capisce che l’attacco terroristico a Israele è identico a quello che ormai subiscono le sue capitali, e sta cambiando gradualmente il consueto atteggiamento. E comunque Israele punta a questa svolta con mezzi molto più espliciti e fiduciosi nelle proprie ragioni. Quando qualche giorno fa il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel ha fissato durante la sua visita in Israele un incontro con membri del gruppo “Breaking the Silence” che accusa Israele di compiere crimini di guerra, per la prima volta il Premier di Israele gli ha proposto una scelta secca fra incontrarsi con lui e vedere i membri di un’associazione che criminalizza Israele, che manda emissari all’estero per arruolare l’opinione pubblica internazionale contro il proprio Paese, che sono stati filmati mentre prendono con l’inganno informazioni senza poi verificarle, e che si suppone siano finanziati da gruppi stranieri e addirittura per intervento palestinese. Gabriel ha tenuto, come era prevedibile, il suo punto: ha preferito vedere “Rompere il silenzio” ad incontrare il Primo Ministro di Israele. Non un gran guadagno per la Germania, probabilmente la Merkel non è stata soddisfatta. Oltretutto il suo amore per Israele era stato testimoniato su Facebook da un post in cui definiva lo Stato Ebraico “regime di apartheid per cui non c’è giustificazione”.
La scelta di Netanyahu parla di tutte le esagerazioni europee senza giustificazione e senza ascolto delle ragioni del suo Paese, a tutti i Paesi che insistono nel condannare Gerusalemme per crimini mai commessi, parla alle organizzazioni come l’Unesco, che cancellano la storia per consegnare il paese ai Palestinesi, a tutte le conferenze internazionali in cui si stabiliscono, senza parlarne con Israele, i confini dei futuri “due stati per due popoli” allargandone gli spazi fino a confini che creerebbero per Israele una situazione di impossibile assedio. Netanyahu ha finalmente chiesto rispetto e con la conclusione della gestione Obama, finalmente è terminata la situazione di antipatia e pregiudizio internazionale per cui non si paga pegno. Dopo Netanyahu, anche Abu Mazen si avvia verso la Casa Bianca e saranno invitati a giocare su un terreno in cui la trattativa si giochi fra le due parti con un mallevadore che non si schiera preventivamente con i palestinesi.
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