Riprendiamo da GRAZIA di oggi, 25/05/2017, a pag. 30, con il titolo "L'amico ritrovato di Israele", l'analisi di Fiamma Nirenstein; da ITALIA OGGI, a pag. 12, con il titolo "Trump: datevi una bella calmata", l'analisi di Roberto Giardina.
A destra: Donald Trump con Benjamin Netanyahu
Ieri Abu Mazen ha dichiarato che, dopo la visita di Donald Trump, è pronto a riprendere i colloqui di pace (lo riporta la stampa israeliana). Vedremo se alle parole seguiranno i fatti.
Ecco gli articoli:
GRAZIA - Fiamma Nirenstein: "L'amico ritrovato di Israele"
Fiamma Nirenstein
Le chiome bionde scintillanti sotto il sole dell'Arabia Sauta sono il segno della visita del presidente americano Donald Trump in Medio Oriente: le teste delle donne non sono state coperte come dalla tradizione musulmana, il re ha persino stretto la mano della first lady Melania (e le donne non si possono toccare in pubblico). Era sbarcato non solo Trump, ma lo stile trumpiano: affermativo, diretto, rivoluzionario rispetto agli accattivanti toni del predecessore Barack Obama, che in Arabia Saudita è stato quattro volte, sempre con la scelta strategica di mostrare una sua amicizia incondizionata verso il mondo arabo e, sullo sfondo, il disegno di fare dell'Iran e quindi degli sciiti persiani, la sua chiave di volta di rapporto con l'Islam.
Invece l'amicizia di Trump è rude, diretta e si è dimostrata piena di scopi espliciti. Primo fra questi: una lotta senza quartiere al terrorismo arruolando un vero e proprio esercito musulmano, con lo scopo sottinteso anche di battere le interferenze iraniane. L'accoglienza è stata entusiasta sia a Riad il 21 maggio, sia il giorno dopo a Gerusalemme. Anche in Israele l'atterraggio è stato simbolico, una full immersion immediata nella cultura occidentale: oltre al primo ministro Benjamin Netanyahu e a tutti i suoi ministri, fuori dall'aeroporto lo aspettava con iniziativa propria una processione di moto Harley Davidson, la passione di Trump. Il milionario punta a un accordo fra palestinesi e israeliani e ha intrapreso una strada in gran parte nuova rispetto a quella tentata da Obama, il quale pensava che una terribile pressione avrebbe piegato Netanyahu ad abbandonare i territori in favore di uno Stato Palestinese. Ignorava del tutto il pericolo che ne sarebbe derivato a fronte di un'Autonomia Palestinese in cui il terrorismo è considerato ancora un'arma strategica e la determinazione a non riconoscere lo Stato ebraico altrettanto definitiva.
Trump dà segni di capire questo problema anche se vuole da Netanyahu dei segnali di buona volontà che consentano di riprendere le trattative di pace. Il presidente ha chiesto al mondo arabo sunnita moderato di dichiarare guerra al terrorismo definendo i terroristi «barbari e delinquenti» e riabilitando così l'insieme della religione musulmana: in campagna elettorale aveva disegnato un Islam aspro e aggressivo, stabilendo poi che l'ingresso in America fosse vietato ai cittadini di parecchi Stati. L'ex presidente Obama aveva proposto un rapporto basato sulle scuse del mondo occidentale per i torti fatti agli arabi: con molti inchini, molti salamelecchi, molti errori aveva individuato un possibile alleato nella Fratellanza Musulmana, nominando l'Iran il suo interlocutore per eccellenza. L'accordo di Obama con Teheran per frenare la corsa al nucleare è stato definito da Trump il peggiore mai firmato. Adesso fra un tintinnare di cristalli nelle sale sfarzose della reggia saudita e poi la calorosa accoglienza di Netanyahu è un totale rovesciamento della politica del predecessore: l'alleanza con un mondo finora in bilico fra l'integralismo islamico e l'Occidente per una guerra senza quartiere contro il terrorismo.
«Buttateli fuori dai centri di studio, dalle loro case, dai vostri Paesi», ha ruggito Trump. C'è qualche garanzia che questo appello all'insurrezione dell'Islam contro il terrore che nasce nel suo seno non resti una pura aspirazione: l'accordo per la vendita di armi americane ai sauditi, e l'altolà molto serio all'Iran perché non minacci con una nuova corsa sotterranea all'atomica tutto il mondo, e in particolare Israele. Qui, nonostante la difficoltà del processo di pace coi palestinesi e gli ostacoli nel realizzare la promessa di trasportare a Gerusalemme l'ambasciata degli Stati Uniti,Trump porta un cambiamento: quello di un presidente che ha un evidente affetto per Israele. Da questo deriva un sincero desiderio di creare una pace effettiva fra le due parti e di un coinvolgimento del mondo arabo moderato.
ITALIA OGGI - Roberto Giardina: "Trump: datevi una bella calmata"
Roberto Giardina
Donald Trump
In uno dei momenti drammatici della guerra fredda, un mio famoso e anziano collega, e amico, venne a Berlino. Gli chiesi se volesse che lo accompagnassi al Muro. No, mi rispose, ho tutto chiaro, e se vedo quel che accade mi confondo le idee. Forse non aveva torto, non del tutto, ma a Gerusalemme per comprendere bisogna vedere. Soprattutto quel che è scomparso. Si capisce andando a piedi, lungo la linea che separava le due parti della città, l'israeliana e la giordana. Il punto di passaggio è sopravvissuto e trasformato in un museo riservato agli artisti ebrei, con opere che invitano alla coesistenza. Una strada stretta è diventata un'arteria di scorrimento a quattro corsie. Malilla è un'elegante strada di boutique, la via Montenapoleone di Gerusalemme.
Nel 67, prima della guerra dei sei giorni che portò all'unificazione della città, era una discarica. La linea di confine è scomparsa, ma rimane una cicatrice invisibile. Non si deve cancellarla, ma superarla. Donald Trump non è andato a piedi attraverso Gerusalemme, ma per ragionare tiene i piedi per terra. Non usa, perché lo ignora, un linguaggio diplomatico. Quel che dice sorprende, spesso urta, ma è chiaro. Qualcuno è rimasto deluso perché nei suoi discorsi nei due giorni in Israele non ha fatto promesse, non ha citato temi scottanti, ha dimenticato la questione dell'ambasciata Usa che, appena insediato, voleva far traslocare da Tel Aviv a Gerusalemme, che è la capitale per gli israeliani. E' un fatto positivo, se si vuol arrivare a un'intesa, si deve evitare di irritare una delle parti. Quel che conta per Donald è riavvicinare israeliani e palestinesi. I grandi gesti, e i discorsi pronunciati per un applauso, sono controproducenti. Tutto qui.
Il Jerusalem Post, che è un giornale conservatore, ha paragonato il discorso di Trump a quello pronunciato a suo tempo dal predecessore. Nell'editoriale, «Trump's vision of peace», si ricorda che Obama fece un appello alla pace, a cui non seguirono dei fatti. Parole vaghe, retoriche. Trump, da imprenditore più che da statista, è rimasto concreto: ha detto (a Riad) ai paesi sunniti che il terrorismo è affar loro. Ha ammonito a non sovvenzionare il terrorismo. E ha usato il termine «terrorismo islamico», e non islamista come gli avevano suggerito i suoi consiglieri. Parole chiare, in confronto a Obama che non ha mai voluto citare l'Islam. In cambio vende armi all'Arabia Saudita, e i miliardi di dollari che avrà in cambio saranno investiti negli Usa per creare posti di lavoro.
Non siete preoccupati? «Siamo sempre preoccupati quando si tratta di armi», mi spiega Zvi Mazel, ex ambasciatore in Svezia, e in Egitto. «Però restiamo pragmatici anche noi. Qualcosa Trump doveva offrire in cambio. E poi, sempre gli Stati Uniti hanno fornito armi agli arabi, sempre un po' meno moderne, inferiori alle nostre». I paesi sunniti alleati contro l'Iran, che rimane il nemico più pericoloso, sarebbe un gran successo, secondo gli israeliani. Nel parlare a Betlemme innanzi ad Abu Mazen, Trump ha invitato i palestinesi a porre fine a ogni incitamento alla violenza contro Israele. Per la pace, che non ha nominato, bisogna migliorare le condizioni dei palestinesi, e questo non potrà avvenire senza rinunciare alla violenza, al terrorismo. In estrema sintesi, io vi aiuto, e voi non collaborate con i terroristi.
In un certo senso, Trump torna alle posizioni di Bill Clinton. Allora non servì, ma è trascorso oltre un quarto di secolo, e la situazione mondiale è diversa. Il terrorismo ha assunto altre dimensioni, e l'Europa si trova in prima linea. Abu Mazen è stato attaccato duramente per non aver reagito alle parole di Trump. Ma il suo silenzio è un fatto positivo. Il governo israeliano ha cominciato a fare alcune concessioni sulle restrizioni agli spostamenti dei palestinesi. Un piccolo primo passo. I capi palestinesi finiranno di esaltare gli attentati? L'ottimismo di Trump non è affatto fuori posto, conclude il Jerusalem Post. A Gerusalemme Donald ha visto abbastanza, e non si è confuso le idee.
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