Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/05/2017, a pag. 28, con il titolo 'Caro Duce, non dovremmo fare questo agli ebrei', l'analisi di Amedeo Osti Guerrazzi.
Amedeo Osti Guerrazzi
Giorgio Perlasca
«Duce, non dovrebbe essere questo, non può succedere questo! È un brano di una lettera scritta da alcuni fascisti a Mussolini nell’autunno del 1943. È un appello disperato, è la richiesta perché una anziana ebrea sia liberata e salvata dalla deportazione verso i campi di sterminio. Può sembrare pazzesco, ma si tratta di un documento autentico, che racconta una storia poco conosciuta, quella dei fascisti che salvavano gli ebrei.
Nell’autunno del 1943 migliaia di ebrei italiani sono in fuga. Con la grande razzia romana del 16 ottobre 1943 (1022 deportati ad Auschwitz), la caccia ai nemici razziali del Terzo Reich è ufficialmente iniziata anche in Italia. Nei mesi successivi, la Repubblica Sociale di Mussolini darà la sua piena collaborazione alle razzie. Tutto semplice, apparentemente, per i tedeschi. Con le autorità di Salò che si sono assunte la gran parte del lavoro sporco degli arresti, i fascisti sembrano essersi perfettamente allineati alla politica di sterminio voluta da Hitler. Ogni fascista, ogni probo cittadino della Repubblica, quindi, dovrebbe partecipare alla «caccia all’ebreo», o almeno denunciare alle autorità questi nemici della Patria, soprattutto in un momento critico come quello della guerra.
Lo Schindler italiano
Ma la storia non è mai semplice e lineare. Non sono pochi i fascisti che, invece di denunciare gli ebrei, decidono che l’antisemitismo è una aberrazione, che la deportazione di intere famiglie verso i campi di sterminio è un crimine orrendo, che quei «nemici della Patria» devono essere aiutati. Sono fascisti, o almeno lo sono stati, ma questa storia è troppo orrenda per obbedire agli ordini del Duce.
Il caso di Giorgio Perlasca, l’italiano che nel 1944 si finse console spagnolo a Budapest e salvò migliaia di ebrei ungheresi dalla deportazione, è sicuramente il caso più noto di un «Giusto fra le nazioni» fascista. Un fascista, cioè, che mise da parte ogni convinzione ideologica e, rischiando di persona, decise di comportarsi come la sua coscienza di persona perbene gli imponeva. Il caso Perlasca, grazie soprattutto al libro di Enrico Deaglio La banalità del bene (Feltrinelli 1991), e alla successiva fiction televisiva, è diventato giustamente famoso all’inizio di questo secolo, ma non è stato il solo. Furono più di quanti non si pensi quei fascisti che, come Perlasca, decisero di mettere a repentaglio la propria libertà e la propria vita per salvare dalle razzie naziste gli ebrei in fuga.
Uno di questi è il conte Vaselli, un grande imprenditore edile romano che con il fascismo aveva fatto fortuna. Un uomo di fiducia per il regime. Sono passati solo pochi giorni dalla grande razzia del 16 ottobre, e migliaia di ebrei romani sono disperatamente alla ricerca di un rifugio. Alcuni lo trovano nei conventi, altri presso amici cattolici, ma molti non hanno questa fortuna. Soprattutto i maschi sono difficili da nascondere, specialmente quelli in età militare. Sono molto pochi coloro che se la sentono di dargli un rifugio.
Anche Vaselli potrebbe serenamente continuare a fare affari con i nazifascisti e ignorare i loro crimini, ma non lo fa. In via delle Zoccolette, nel pieno centro di Roma, la sua ditta sta costruendo un grande condominio. Vaselli si mette d’accordo con un ex ufficiale del carabinieri, il capitano Jurgens, per nascondere in quell’edificio ancora disabitato una cinquantina di ebrei. Vaselli ci mette lo stabile, cibo e coperte, mentre Jurgens ha il compito di organizzare la vigilanza, con alcune vedette che, ufficialmente, sono state assunte dall’impresa del conte come guardiani notturni.
Il conte se la cava
Tutta l’organizzazione viene smantellata dalla polizia italiana nel gennaio del 1944. Vaselli, interrogato in questura, è costretto ad ammettere di sapere della presenza di persone nel suo stabile, ma si difende dicendo di aver voluto ignorarli per motivi «umanitari». È una dichiarazione palesemente falsa, come testimoniato nel dopoguerra da una famiglia di ebrei che ha trovato rifugio nello stabile di via delle Zoccolette, ma necessaria per evitare di finire nelle galere naziste. Grazie anche alla evidente complicità dei poliziotti italiani, che fingono di credere alle scuse di Vaselli, il conte se la cava, e con lui anche alcuni dei «suoi» ebrei.
Un altro caso è quello di Vittorio Tredici, ex segretario federale del Pnf a Cagliari che, sempre a Roma, nasconde una famiglia ebrea per tutto il periodo dell’occupazione. Sottoposto al procedimento di epurazione, nel dopoguerra, Vittorio Tredici esibisce davanti ai giudici la testimonianza di Rodolfo Funaro, il quale testimonia che: «particolarmente durante una irruzione nella propria abitazione da parte delle SS tedesche fummo ricoverati presso l’abitazione del sig. Tredici, che in tal modo espose sé stesso e la propria famiglia al pericolo gravissimo delle rappresaglie dei militi che si trovavano nello stesso caseggiato». Vittorio Tredici, nel 1997, è stato insignito della medaglia di «Giusto fra le nazioni» dello Stato d’Israele.
Raffaele Paolucci, un ex deputato fascista, non ha avuto invece alcun riconoscimento, eppure anche lui si oppose alle deportazioni rischiando di persona. Era un chirurgo, e nella sua clinica privata, durante l’occupazione di Roma, mise in salvo decine di persone, tra le quali almeno cinque ebrei.
Oltre a questi casi, particolarmente clamorosi, dalle carte d’archivio spuntano ogni tanto documenti davvero singolari, come lettere di fascisti che chiedono a Mussolini di intercedere in favore di ebrei deportati. In una di queste, firmata da un gruppo di fascisti di Alassio, si legge: «Una povera vecchia [ebrea] di 68 anni, senza figli, vedova e con disturbi al cuore, è stata arrestata dai Carabinieri Repubblicani di Alassio sin dal 7 dicembre 1943 e messa in carcere ad Albenga». Dopo aver lungamente sottolineato le benemerenze fasciste della signora, la lettera conclude «Duce, non dovrebbe essere questo, non può succedere questo!».
Senso di giustizia
Ha dell’incredibile che nell’autunno del 1943, in piena occupazione tedesca, dei fascisti firmino una lettera di questo genere, così come sembra incredibile che tanti ebrei abbiano dovuto la loro salvezza a dei fascisti. Tuttavia, davanti a tanta sofferenza, all’enormità delle deportazioni degli ebrei dall’Italia, di cui moltissimi sapevano la fine, anche alcuni fascisti, per quanto ideologicamente convinti, trovarono il coraggio di opporsi. Un ventennio di dittatura, e anni di propaganda antisemita, non erano riusciti a cancellare il senso di giustizia di «uomini comuni», ma straordinariamente coraggiosi.
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