Riprendiamo da SHALOM di maggio 2017, a pag.17, con il titolo "Il Medio Oriente attende le mosse di Trump. L'Iran è avvertito", il commento di Angelo Pezzana.
Angelo Pezzana
Trump in visita in Arabia Saudita
Dopo gli otto anni di disastrosa politica estera dell’Amministrazione Obama è opportuno valutare i cambiamenti annunciati da Donald Trump a distanza di alcuni mesi dalla sua elezione. Affrontiamo i nodi caldi, l’Iran, i confini di Israele a nord e sud e i rapporti diplomatici Gerusalemme Washington. Con la premessa che qualunque decisione Trump prenderà la maggioranza dei commenti gli sarà comunque ostile, esaminiamo la situazione come si presenta a fine aprile. L’Iran gode della benevolenza dei nostri media, atteggiamento prevedibile se consideriamo l’enorme potenzialità di mercato di un paese così grande per le nostre aziende. Se cadono tutte le sanzioni si aprirà un enorme business, e il denaro, come ci ricorda la canzone, è ciò che fa girare il mondo, poco importa se il paese degli ayatollah è alla base del terrorismo mondiale. L’esperienza dell’Accordo di Vienna con Usa e Unione europea è illuminante: non importa chi è al governo a Teheran, chiunque verrà eletto, la linea politica sarà la stessa, cambieranno le parole, ma non gli obiettivi.
Contro Israele e, oggi ancora di più, contro gli Usa, e destabilizzazione dei regimi arabi che non accettano di diventare satelliti ubbidienti. Dietro la guerra civile in Siria, oltre al terrorismo islamico, c’è la longa manus dell’Iran, in stretta alleanza con Hezbollah. Il mondo cosiddetto civile dovrebbe essere grato a Israele per avere annesso le alture del Golan, invece di definirlo ‘occupato’. Se quel confine è oggi sotto controllo, impedendo l’estendersi della guerra in tutto il Medio Oriente, è merito di Tzahal. Così come al sud, dove il confine con il Sinai egiziano è un pericolo non solo per lo Stato ebraico, ma per l’intero Egitto. A causa della politica di Obama, rivolta a sostenere i Fratelli Musulmani , l’Egitto si trova ora fortemente impreparato militarmente ad affrontare le tecniche di guerriglia del Califfato, appoggiato nella Penisola dalle tribù beduine locali in gran parte affiliate a Hamas. L’esercito egiziano segue ancora le linee guida dei tempi nasseriani, essendo venuta meno la assistenza americana.
L’incontro molto positivo tra il generale Al Sisi e Trump a Washington lascia sperare. È dal Sinai che partono missili contro il sud di Israele, per ora di potenza limitata, me se il Califfato non verrà sconfitto, non sarà solo Israele a trovarsi di fronte a una nuova guerra di difesa, ma lo sarà l’intera regione. Per questo l’aiuto Usa a Al Sisi avrà una importanza strategica non solo sul piano economico, ma soprattutto su quello militare. Veniamo a Israele e le promesse di Trump. Essendo sempre sotto i riflettori, gli esami quotidiani esigono risposte immediate, un evidente non sense. Decisioni così rilevanti richiedono valutazioni equilibrate, per cui valutiamo quanto è stato fatto finora. La nomina a ambasciatore di David Friedman è una conferma delle intenzioni. Lo spostamento dell’Ambasciata a Gerusalemme è nei programmi, come lo è il rapporto in generale dopo l’incontro a Washington tra Trump e Netanyahu. Il linguaggio della diplomazia non è quello della politica, ma che sia cambiato è sotto gli occhi di tutti, soprattutto di quelli che dovremmo abituarci a chiamare “esperti del giorno dopo”. Ne sono pieni i nostri giornali, raramente ne imbroccano una, ma il giorno dopo che il fatto è avvenuto, sono tutti pronti a spiegarci perché è avvenuto. Come è successo con Trump. L’hanno sommerso da destra e sinistra con gli aggettivi più insultanti, adesso che le loro previsioni non si stanno avverando, si arrampicano sugli specchi sprecando gli ‘anche se’ e i ‘non solo ma anche’. Evitiamo i nomi, la lista sarebbe troppo lunga.
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