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Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli Cari amici, la visita di Trump in Israele (e prima in Arabia) è certamente l’avvenimento più importante del periodo per chi come noi si occupa di Medio Oriente. Se n’è parlato già tanto, ancora moltissimo lo si farà, ma più in termini di pettegolezzi (se vogliamo essere gentili: in termini aneddotici) e di simbolismi un po’ banali, poco in termini di analisi politica, almeno in Italia. Che Trump vada a Masada o meno, per ragioni di sicurezza o di stazza fisica e dell’impossibilità di usare l’elicottero; che visiti il Kotel (il Muro del pianto, nel linguaggio europeo) essendo accompagnato o meno da Netanyahu, che si fermi a Yad va Shem (il museo della Shoà) 20 minuti o due ore o anche se un obamita qualificato come segretario politico del consolato americano di Gerusalemme, per definizione anti-israeliano pensi o meno che lo stesso Kotel sia “affare degli israeliani”, come vi ho raccontato. Sono dettagli, magari simbolici, ma dettagli. Il problema è il quadro politico, che è cambiato parecchio rispetto a sei messi fa, quando Trump fu eletto. Allora poteva sembrare che la sua vittoria fosse il segno di una tendenza potente e abbastanza unitaria, che i nemici chiamavano populista e gli amici speravano marcasse il risveglio della volontà di autodifesa dell’Occidente. Si poteva mettere Trump in continuità con la Brexit, leggere il quasi pareggio dei voti in Austria con la vittoria delle forze nazionaliste in Polonia e Slovacchia e attendere che la tendenza fosse confermata in Olanda, Francia e Germania. Così non è stato: in Olanda Wilders ha guadagnato voti, ma meno di quel che ci si aspettava, in Francia Le Pen è andata sì allo spareggio, ma senza mai essere davvero in gara per la vittoria, in Germania la Cdu ha riconquistato i voti di destra e ottenuto quelli di centro tanto da ottenere una clamorosa vittoria nello stato più popoloso della Repubblica Federale, espugnando una tradizionale e importantissima roccaforte socialdemocratica e tenendo lontanissima l’AfD. Negli Stati Uniti il percorso di Trump è stato accidentatissimo, fra scandali veri e costruiti, sconfitte inattese e vittorie parziali, senza dare mai l’impressione di avere in mano la politica del paese. La sua visita in Medio Oriente avviene dunque in una situazione di confusione notevole, in cui non si capisce se contino le sue dichiarazioni, molto pro-israeliane, quelle del suo ambasciatore ancora più amico di Israele, o quelle del Dipartimento di Stato, delle organizzazioni diplomatiche che curano la vistia, di “ambienti della Casa Bianca” che spesso sono allineate con la vecchia diplomazia obamita.
Questo quadro di confusione deriva da un’accanita resistenza dello “Stato profondo” degli apparti diplomatici, militari, spionistici che cerca di portare avanti una politica diversa da quella che ha vinto le elezioni, e allo stesso tempo di squalificare e diffamare Trump. E’ una politica di “resistenza” che sembra fosse stata predisposta anche in Francia per “difendere la Repubblica” in caso di vittoria della Le Pen e che negli Stati Uniti è coordinata esplicitamente dai vecchi avversari Obama e Clinton, con l’attiva collaborazione dei “più autorevoli” giornali che non hanno affatto sotterrato l’ascia di guerra della campagna elettorale. Io non credo che questa politica potrà reggere a lungo e non ci sono segni né che Trump abbia cambiato le sue convinzioni, né che le bufale sulla fornitura di informazioni segrete ai russi riesca e offuscare l’appoggio popolare sulle sue scelte fondamentali e sulla sua opposizione all’establishment; ma certo la situazione è molto confusa e le provocazioni si succedono ogni giorno. Bisognerà vedere quanto il presidente nemico della classe politica riuscirà a reggere senza perdere troppa lucidità e capacità strategica nel corpo a corpo. Più strutturato e originale quel che è successo in Europa. L’ascesa delle forze dette populiste dai loro nemici era propiziata dal fatto che la destra tradizionale aveva rinunciato al suo linguaggio, alle sue immagini e alle sue scelte. Ora Macron in Francia, ma soprattutto Rutte in Olanda e Merkel in Germania hanno capito che le elezioni si vincono spostandosi a destra, facendo concorrenza ai movimenti che resistono all’immigrazione e ne denunciano il legame col terrorismo, puntando sui temi della sicurezza. E l’hanno fatto con successo, ma per il momento solo a parole. La loro vittoria dimostra che (almeno nell’Europa centro-settentrionale) non c’è più uno spazio politico né per l’estrema sinistra barricadiera e verbosa, con i vecchi slogan anticapitalisti, e neppure per la “sinistra moderna” che tenta di rinnovare la “terza via” di Tony Blair. Non ci sono chances né per i neocomunisti né per i neosocialisti, per la semplice ragione che la gente ha capito che le loro ricette antiliberali sono disastrose e il controllo politico dell’economia è la via della dittatura e della miseria. Il problema però è che le politiche effettive seguite da Merkel e Rutte in passato non sono state affatto di destra, ma hanno ripreso temi e programmi di incoraggiamento all’immigrazione, burocratizzazione, centralizzazione dell’Unione Europea. E Macron è in questo come su altro in sostanziale continuità col socialismo (e purtroppo anche con l’antisraelismo) di Hollande. Stanno vincendo dunque perché si propongono di cambiare e di ridare all’Europa i tradizionali governi di centro destra, con solide politiche di sicurezza e diffidenza per l’euroburocrazia, o fanno solo finta per superare le elezioni? Io spererei molto che in Europa ci fossero di nuovo forze politiche moderate e laiche, capaci di tutelare le libertà civili e la sicurezza di tutti. Preferirei molto dunque la prima ipotesi, che renderebbe inutili e superate le forze di destra marginali e talvolta un po’ sospette che ne hanno esercitato la supplenza. Temo però che sia vera la seconda ipotesi, che Merkel, Rutte, Macron e soci continuino a sostenere ideologicamente l’apertura sciagurata all’immigrazione islamica, con la conseguenza del rancore per Israele e gli ebrei, dell’aumento del terrorismo e del dirigismo statale e fingano solo di aver capito il desiderio opposto dell’elettorato e i segnali di allarme che hanno ricevuto. Ma se fosse così, le loro vittorie sarebbero effimere e l’Europa affonderebbe in una crisi ancora più pesante. Insomma, sia nella politica americana che in quella europea la confusione è grande, si naviga a vista e spesso non si fa quel che si dice e non si dice quel che si vuol fare. E’ questo il contesto della visita di Trump in Israele (e poi in Italia). Non sono le premesse per un successo facile. Speriamo che le cose vadano bene, che l’ispirazione originaria dell’amicizia di Trump per Israele prevalga sui trappoloni che gli hanno preparato i suoi e anche sulle cortine fumogene dei media. Non possiamo che confidare sulla lucidità e sulla capacità tattica di Netanyahu perché quella che era stata prevista e sperata come una festa resti tale e non si trasformi in un problema.
http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90 |
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