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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
18.05.2017 Iran verso le urne, la scelta tra estremisti e fanatici
Analisi di Viviana Mazza, Claudio Gallo, la disinformazione di Roberto Toscano

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica
Autore: Viviana Mazza - Claudio Gallo - Roberto Toscano
Titolo: «In chador per Raisi, il populista di Teheran - L’alleanza fra moderati e riformisti: 'Rohani ha aperto l’Iran al mondo' - Se anche in Iran l'élite è in discussione»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/05/2017, a pag. 15, con il titolo "In chador per Raisi, il populista di Teheran", l'analisi di Viviana Mazza; dalla STAMPA, a pag. 13, con il titolo "L’alleanza fra moderati e riformisti: 'Rohani ha aperto l’Iran al mondo' ", l'analisi di Claudio Gallo; dalla REPUBBLICA, a pag. 29, con il titolo "Se anche in Iran l'élite è in discussione", il commento di Roberto Toscano.

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza: "In chador per Raisi, il populista di Teheran"

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Viviana Mazza

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Iraniani bruciano una bandiera israeliana

Una valanga di chador neri, paramilitari basiji e turbanti bianchi si riversa sulla Musalla, un luogo di preghiera più capiente di uno stadio dove spesso si tiene la preghiera del venerdì a Teheran. Ma il rito che si celebra stavolta è un altro: i comizi pre-elettorali. Come ogni quattro anni, questo venerdì gli iraniani tornano a eleggere il presidente. Una scelta limitata: su 1.629 candidati (tra cui 137 donne), solo sei (come sempre tutti uomini) hanno passato il veto del regime guidato a vita dall’Ayatollah Ali Khamenei. La sorpresa, in un’elezione in cui era data per scontata la conferma del presidente Hassan Rouhani, è stata la candidatura di Ebrahim Raisi, un ultraconservatore con il turbante nero indossato dai discendenti di Maometto che sembra avere il favore di Khamenei. In un caldo pomeriggio pre-elettorale, i pullman e le auto dei suoi fan diretti al comizio alla Musalla intasano per un’ora il tunnel Resalat, tra le grida ritmate dai clacson: «Rouhani, questo weekend te ne vai!». I basiji — che il regime usa contro i dissidenti — superano tutti, saltando con le moto sui marciapiedi.

Il favorito resta Rouhani, che ha concluso l’accordo sul nucleare con l’Occidente. Ma la campagna elettorale, centrata sull’economia, è stata più dura del previsto per via del malcontento: l’inflazione si è ridotta, ma la disoccupazione è aumentata (quella giovanile è al 30%); la crescita del 6,6% riguarda solo il settore petrolifero; le sanzioni bancarie Usa restano in vigore e i miliardi di investimenti stranieri non si sono materializzati, anche in attesa delle mosse di Trump. Non che Raisi sia un esperto di economia. Da trent’anni in magistratura, è noto più che altro perché nel 1988 sarebbe stato uno dei quattro membri della cosiddetta «Commissione della Morte», che fece giustiziare migliaia di prigionieri politici. I Pasdaran portano in pullman la gente ai suoi comizi, perché sperano rafforzi quell’isolamento sul quale hanno costruito un impero economico. Lo stesso Khamenei, pur non dandogli l’endorsement, lo ha aiutato: un anno fa lo ha messo a capo del più grosso santuario sciita dell’Iran e della sua ricca fondazione.

Di recente, ha criticato Rouhani per aver ignorato i poveri e cercato di costruire ponti con l’America. E c’è chi crede che veda in Raisi il possibile successore (alla propria morte) per la poltrona di Guida Suprema. Per persuadere gli iraniani più pii e i più poveri, Raisi racconta di essere orfano come Maometto e si presenta come uno del popolo: promette 6 milioni di posti di lavoro (pur non spiegando come li otterrebbe) e più sovvenzioni mensili al 30% della popolazione (anche se gli economisti avvertono che farebbe decollare l’inflazione). La carta populista funziona su alcuni: «Sono laureata in farmacia ma non ho lavoro — dice Fazie, 24 anni, prima di chiamare un taxi con Snap, l’Uber persiano —. Mio nonno e mio padre sono disoccupati dopo la chiusura di due fabbriche, di dentifricio e di frigoriferi. Raisi ci aiuterà». Lui sa che ha bisogno delle donne per vincere. Le sue sostenitrici portano quasi tutte il chador: al comizio pur entrando in massa con gli uomini tendono a coagularsi in gruppetti segregati, mentre un religioso rifiuta di parlare con la giornalista malvelata. Ma se le donne più anziane, come la signora Rahimi e la signora Zanjani, sono casalinghe, le più giovani, come Zahra Azizi, 20 anni, che è arrivata con due compagne di università, vogliono lavorare. Per questo lo stesso candidato ultraconservatore, che di solito parla dei ruoli più «tradizionali» delle donne, di recente ha elogiato la consorte, Jamileh, docente universitaria: «Se vado a casa e trovo un pasto freddo perché lei non c’è, non mi importa».

LA STAMPA - Claudio Gallo: "L’alleanza fra moderati e riformisti: 'Rohani ha aperto l’Iran al mondo' "

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Claudio Gallo

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Ebrahim Raisi - Hassan Rouhani

Alle presidenziali e alle comunali di domani in Iran, la Guida suprema ha dedicato cinque tweet, prevedendo che il voto si svolgerà in un clima di pace e partecipazione. Per i vertici della Repubblica l’affluenza è fondamentale perché simboleggia il seguito popolare del sistema islamico nato dalla rivoluzione. Con la corsa elettorale ridotta a una sfida tra due religiosi, Rohani e Raisi, un moderato e un conservatore, il possibile ballottaggio (la settimana successiva) si è sgonfiato: resta in ogni caso una partita a due tra l’attuale presidente e lo sfidante tradizionalista. L’atmosfera da noi contro loro dovrebbe smuovere gli indecisi e portare più gente alle urne. Come spesso accade, chiunque vinca ha vinto Khamenei.

Ieri è stato l’ultimo giorno della campagna elettorale, prima del silenzio della vigilia. Come previsto il vice presidente candidato Eshagh Jahangiri si è fatto da parte, invitando a votare Rohani. Inaspettato è giunto invece nel campo moderato l’appoggio di Hassan Khomeini. La sua simpatia per moderati e riformisti era nota ma un pronunciamento non era nell’aria. Segno forse che il nipote del fondatore della Repubblica ha preso sul serio le voci di una rimonta di Raisi.

Rohani continua a ostentare sicurezza, fidando sulla consuetudine per cui tutti i presidenti hanno fatto un secondo mandato. È andato a chiudere la campagna nella tana del nemico, a Mashhad, dove Raisi guida una delle più potenti associazioni religiose iraniane, ed è riuscito a mettere insieme una folla di 70 mila persone. Man mano che ci si avvicinava alle urne e il fronte conservatore si compattava, il presidente moderato si è spinto sempre più su posizioni riformiste, per recuperare forse voti tra i sostenitori dell’Onda verde del 2009 e ha finito per attaccate i Pasdaran invitandogli pasdaran dicendo che a tenersi fuori dalla politica. Qualche giorno fa inoltre il suo appello per la liberazione di Mir Hussein Mousavi è stato tagliato dalla televisione di Stato.

Per strappare gli ultimi voti, Raisi non è andato per il sottile: stanotte alla Torre Milad dovrebbe chiudere la sua campagna a Teheran il rapper Amir Tataloo. Un personaggio stravagante che ha girato videoclip a favore dell’esercito, finito nei ranghi conservatori nonostante la sua musica lo abbia portato più volte in prigione. Eppure il custode del santuario dell’Imam Reza, che non avrebbe permesso un suo concerto a Mashhad neanche sotto tortura, lo ha incontrato sorridendogli come a un figliol prodigo.
Nella capitale i sostenitori di Rohani hanno chiuso la campagna nel palazzetto coperto dello stadio Shiroudi. La star della manifestazione era Moshen Hashemi, il figlio di Rafsanjani che ha agitato l’ancora prestigioso vessillo famigliare. Uomini e donne mescolati sulle gradinate giuravano che il prete buono batterà il prete cattivo, pur sapendo che in economia il loro campione non ha brillato. Reza, 50 anni, un negozio di ferramenta a Teheran, ammetteva candidamente: «La politica economica del governo è criticabile, però Rohani ha riaperto l’Iran al mondo. Bisogna lasciarlo lavorare».
Al di là dell’economia, che è stato il tema principale delle elezioni, c’è tra i due campi una contrapposizione fondamentale, colta sinteticamente nel pronunciamento della famiglia dell’ayatollah Montazeri in favore di Rohani: «È la scelta tra due modi totalmente diversi di pensare e di comportarsi».

Nella sua casa nella parte vecchia di Teheran Nord, Emadeddin Baghi, uno dei più celebri e coraggiosi difensori dei diritti umani del Paese, rivoluzionario della prima ora finito in carcere tre volte sotto il regime islamico, non ha dubbi sulla vittoria di Rohani: «Ci sono diversi sondaggi fantasiosi in giro - dice - ma secondo i dati attendibili che mi arrivano, l’attuale presidente è decisamente in vantaggio. Sono contento, il Rohani di oggi è molto diverso da quello di ieri, ha portato un clima di rispetto distante anni luce dalla sopraffazione e dalla paura che hanno caratterizzato l’era di Ahmadinejad».

LA REPUBBLICA - Roberto Toscano: "Se anche in Iran l'élite è in discussione"

Secondo Roberto Toscano gli iraniani "non nutrono certo intenzioni bellicose". Toscano, però, omette di soffermarsi sulle minacce di morte e distruzione rivolte dal regime degli ayatollah a Israele e a tutti gli emirati della regione. Per il resto, neppure Toscano si azzarda a definire l'Iran una democrazia: basta guardare a come il clero sciita domina il Paese per accorgersene. Ma a Toscano, che non è cittadino iraniano, non gliene può fregar de meno.

Ecco il pezzo:

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Roberto Toscano

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Ali Khamenei

SAREBBE davvero azzardato definire l’Iran come una democrazia. Ma allora, come mai è giusto interessarsi alle elezioni presidenziali di domani? Il fatto è che, seppure con tutte le limitazioni e le distorsioni del processo elettorale, il risultato delle elezioni in Iran è sempre imprevedibile, il che rende impossibile definirle come una mera sceneggiata del regime. È vero anche questa volta. I presidenti iraniani sono sempre stati rieletti per un secondo mandato, e a prima vista risulta difficilmente comprensibile che questo precedente possa cadere nei confronti di Rouhani, un presidente che può segnare al suo attivo una serie di successi non secondari. In primo luogo, l’accordo sul nucleare concluso nel 2015 — un accordo che ha allontanato lo spettro, in una certa fase tutt’altro che teorico, di un attacco militare americano o israeliano.

Anche per quanto riguarda l’economia gli anni della presidenza Rouhani hanno fatto registrare risultati positivi: un tasso di crescita arrivato lo scorso anno al 6 per cento annuo, un’inflazione scesa dal 40 al 7,2 per cento. In politica però, in Iran come altrove, l’orientamento degli elettori non viene determinato da dati obiettivi quanto piuttosto da percezioni, da interpretazioni, dal gioco di interessi contrastanti. I cittadini iraniani restano ampiamente favorevoli all’accordo, sia perché (per il trauma degli otto anni di guerra con l’Iraq negli anni ’80 e per il tragico esempio delle attuali guerre in Medio Oriente) non nutrono certo intenzioni bellicose, sia perché vedono l’accordo come premessa di quella maggiore integrazione con il mondo esterno che è considerata indispensabile per raggiungere un più elevato grado di benessere. Ma sono anche profondamente delusi. In parte perché le aspettative erano troppo alte, ma in parte perché i risultati sono stati al di sotto di quello che avrebbero potuto e dovuto essere. Non basta la sospensione delle sanzioni, infatti, per convincere le grandi società internazionali a impegnarsi nei rapporti sia commerciali che finanziari con un paese che ancora viene considerato poco sicuro. Questo soprattutto dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e alla luce dei sempre fortissimi umori anti-iraniani in Congresso. Anche chi, in primo luogo le imprese europee, vorrebbe andare avanti nei rapporti con l’Iran non si fida e aspetta.

Ma a parte i mancati risultati dell’accordo nucleare, è l’andamento dell’economia in generale a costituire il punto di maggiore debolezza di Rouhani. Il dato più sensibile e più negativo è la disoccupazione, che attualmente è al 12,6 per cento e non solo non è diminuita, ma anzi aumentata rispetto a quattro anni fa, quando era all’11 per cento. Una disoccupazione percepita come risultato di privilegi, esclusione, ingiustizie, corruzione. Fenomeni di cui i conservatori responsabilizzano i riformisti, ritenuti elitari e lontani dalle esigenze dei più umili. Tre giorni fa una notizia è giunta ad aumentare gli elementi di incertezza sulla possibilità di una vittoria di Rouhani. Uno dei candidati alla presidenza, l’attuale sindaco di Teheran Mohammad Bagher Ghalibaf — che aveva centrato la sua campagna su un attacco populista alla politica economica di Rouhani («Noi rappresentiamo il 96 per cento, Rouhani il 4 per cento») — ha annunciato che si ritirava dichiarando il proprio appoggio per Ebrahim Raisi, un esponente del clero più conservatore che presiede la Fondazione Astan-e Qods Rajavi, un’istituzione che gestisce, disponendo di enormi introiti economici, uno dei centri più importanti dello sciismo iraniano, quello di Mashad. Si era detto che non era del tutto chiaro se Raisi credesse davvero di potere essere eletto (fra l’altro il suo intervento nei dibattiti fra candidati è risultato francamente penoso) oppure se si presentasse soltanto per farsi conoscere in vista del suo vero obiettivo: essere il successore di Khamenei, che palesemente lo appoggia, come Leader Supremo.

Ma dopo il ritiro di Ghalibaf appare evidente che Raisi è il candidato su cui si concentreranno i voti di tutti i conservatori, così come il campo riformista-centrista si è subito ricompattato con il ritiro della candidatura di Jahanghiri, un candidato che aveva riscosso notevoli simpatie popolari. La competizione quindi è ora chiaramente a due. Nel corso della campagna il tono delle repliche di Rouhani agli attacchi degli avversari è andato via via inasprendosi, rendendo in questo modo più esplicita la posta in gioco di queste elezioni: «Cari iraniani, cosa volete? Volete limiti alla libertà o più libertà? Tensioni internazionali o la pace? Isolamento o il suo contrario?»; «Mi presento come candidato per dire agli estremisti e ai violenti che il loro tempo è finito». Rouhani ha attaccato Raisi per il suo passato di giudice che nel 1988 aveva deciso l’esecuzione di migliaia di prigionieri politici («Il popolo dirà di no a chi per 38 anni ha solo giustiziato e incarcerato») e per il fatto che la sua Fondazione, in realtà un colossale business, goda di esenzioni fiscali come ente religioso. Toni insoliti, soprattutto in bocca a chi non è certo un outsider ma uno dei dirigenti storici della Repubblica Islamica, in una lotta politica aspra ma che di solito evita di toccare i temi più delicati, quelli che si riferiscono alla storia e alla struttura del regime. Ha persino attaccato i potentissimi Pasdaran: «Voi mettete le scritte sui missili (Nelle parate militari spesso sfilano missili su cui è scritto “Morte a Israele”, ndr) e così diventa impossibile ricavare benefici dall’accordo nucleare».

La lotta è aspra e, anche se gli osservatori sia interni che internazionali danno ancora per probabile una vittoria di Rouhani, l’esito ha un alto margine di incertezza, sia per il ruolo dei Pasdaran, apertamente ostili a Rouhani (definito da uno dei loro giornali come “il candidato preferito dell’Occidente”) che per l’influenza della parte più conservatrice del clero. Peserà molto anche il Leader Supremo, che forse auspicherebbe, più che una sconfitta di Rouhani — di cui, ricordando il 2009, potrebbe temere ripercussioni a livello di contestazione popolare dei risultati elettorali — un suo indebolimento che, fra l’altro come è accaduto sia a Khatami che ad Ahmadinejad, comporterebbe un virtuale congelamento del Presidente nel secondo mandato, e quindi un rafforzamento del proprio potere. Ma forse quello che potrebbe risultare il fattore più decisivo è il risentimento anti-elitario che in fin dei conti non è poi così diverso da quello che si registra negli Stati Uniti e in Europa e spiega la crescita del populismo.

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